OIFFCineFest2017- Shotgun
[Attenzione Spoiler: vengono svelati particolari della trama]
La IV edizione dell’O.I.F.F. CineFestival di Torino si è aperta in modo audace nella mattinata del 4 maggio, con la proiezione di Shotgun, un film molto duro, estremamente psicologico e incredibilmente originale. Un film nel quale vi è la totale assenza di dialoghi e in cui viene pronunciata una sola parola di senso compiuto in novanta minuti. Il resto sono solo suoni, rumori, bisbigli, momenti di silenzio e vuoto, giochi di luci e ombre, sguardi, gesti, vibrazioni.
La comprensione della trama non risente della mancanza del linguaggio verbale, in quanto il regista, Paddy Jessop, ha fatto in modo che tutti gli altri canali comunicativi venissero potenziati, grazie a un magistrale uso delle immagini, estremamente vivide, agli effetti acustici, all’ampio utilizzo dello zooming in e dello zooming out. Una sorta di viaggio lisergico in cui lo spettatore viene immerso, senza possibilità di estraneazione: tutti i sensi sono ampliati e gli stimoli amplificati.
L’assenza di dialoghi, i vuoti, chiedono uno sforzo di completamento semantico, che aumenta il coinvolgimento e l’attivazione emotiva, tanto da far sentire a chi guarda di essere immerso in una sorta di realtà virtuale, in cui il mondo allucinatorio del protagonista diventa esperienza personale.
La partita si gioca tutta sul campo dell’intensità, che aumenta progressivamente nel film, coinvolgendo con una gradualità frenetica l’osservatore, attraverso l’inserimento di continui elementi di disturbo. Le prime scene mostrano la vita apparentemente normale del protagonista, anche se c’è già qualche avvisaglia che qualcosa non va, qualche elemento che inquieta e fa stare in allarme. Un appartamento claustrofobico, un quartiere pericoloso, un isolamento dalle relazioni interpersonali, un sottile senso di alienazione.
Dato che il film è senza dialoghi e il nome dei personaggi non viene rivelato, utilizzerò un espediente per riferirmi al protagonista, facendo mio il “metodo Lars Von Trier”, e indicandolo, da adesso in poi, come “LUI”.
“Lui” vive in un appartamento buio, è vestito in modo elegante, con una camicia bianca e una cravatta, mangia principalmente “noodles” e arriva spesso in ritardo al lavoro. Al mattino, prima di recarsi in ufficio, assume una quantità enorme di farmaci, e questo è il primo indizio sul fatto che presenti una qualche forma di disturbo mentale. Lavora, però, e dà segnale di condividere i principali valori sociali, denunciando due volte alla polizia dei crimini che si verificano nel vicolo di fronte alla sua finestra, e che coinvolgono uno spacciatore.
Vengono introdotti, però, i primi segnali di rottura: un coltello piantato con forza sul tavolo mentre fa colazione (il rumore è fortissimo e fa sobbalzare dalla poltrona lo spettatore), le prime allucinazioni (vede qualcuno rompere il muro di fronte a sé dall’interno, sente un ruggito mostruoso e vede uscire un fiume di sangue dal buco che “il mostro” ha scavato con le mani).
Il regista inizia a raccontarci la sua storia, attraverso l’inquadratura di alcuni elementi: ad esempio lo zoom su una foto che lo ritrae con una donna, donna che si vede poi nel suo posto di lavoro, intenta a flirtare con un altro collega. Si capisce che “lui” è stato lasciato, che viene poco rispettato dai colleghi e dal capo e che fa un lavoro non gratificante (inserire pile di documenti sul database aziendale).
Alla rottura della relazione con “lei” si aggiunge il licenziamento, forse causato dai suoi ritardi, dato che viene inquadrato in due occasioni l’orologio dell’ufficio. Mentre torna a casa, con la scatola dei suoi effetti personali, dopo aver perso il lavoro, viene anche rapinato, dallo stesso spacciatore che aveva denunciato alla polizia.
Questi eventi, e la decisione di non assumere più la terapia farmacologica (un mattino butta via tutte le confezioni di pillole nello scarico del lavandino) innescano la sua frattura definitiva.
“Lui” inizia a vedersi fuori da sé, diventa osservatore di se stesso, della sua parte più terrificante e oscura: si vede mentre si taglia il viso con una lama affilata, con il volto pieno di sangue e lo sguardo folle.
Tutti i rumori che fanno da sfondo e sono allo stesso tempo elementi della narrazione, sono molto forti (es. il respiro, i passi). Ad essi si aggiungono l’accelerazione delle scene, gli improvvisi cambi di luminosità (alcuni lampi di luce sono così forti che lo spettatore è spinto a chiudere gli occhi), gli zoom sui dettagli. Così, Paddy Jessop costruisce la sua incredibile storia.
Il look di “lui” cambia, e questo cambiamento, come la focalizzazione su alcuni particolari, sono degli espedienti narrativi molto efficaci: non indossa più la camicia bianca e la cravatta, bensì una felpa scura con il cappuccio. Personalmente, in alcune scene, ho respirato un po’ l’aria dei film di Gus Van Sant, perché “lui” mi ha ricordato il protagonista di “Paranoid Park”, con la sua felpa con il cappuccio e l’espressione vuota, e le sue azioni mi hanno riportato alla guerriglia urbana dei protagonisti di “Elephant” (film che racconta il massacro della Colombine High School).
Il protagonista di Shotgun inizia a bere molto, si esercita a sparare, e mette in atto la sua vendetta come i più famigerati spree-killer della storia.
Il film prende una piega splatter: “lui” uccide prima l’ex capo (unica scena in cui si sente pronunciare un’espressione linguistica con un significato: “No! No!”, grida infatti la vittima, con le viscere esposte), poi l’ex collega che flirtava con la sua ex fidanzata.
La ex ragazza inizialmente non riesce ad ucciderla, ci arriva molto vicino, ma si ritira all’ultimo momento. Uscito dalla sua casa, la osserva dalla finestra e vede che sta mangiando un piatto di “noodles”: attraverso questa scena, il regista trasmette allo spettatore, con semplicità estrema, il legame affettivo tra i due. Infine, “lui” commette una vera e propria strage, uccidendo lo spacciatore che lo ha rapinato, la donna per cui questi lavorava e tutto il suo entourage. Una scena molto lunga e al cardiopalma: lo spettatore ha la sensazione di essere lì, di entrare nel corpo dello spacciatore e sentire la sua stessa paura, la sua stessa smania di trovare una via di fuga.
A questo punto non c’è più nessuna parte sana in “lui”, ce ne accorgiamo perché si taglia la faccia come il suo alter ego, come l’altro sé che vedeva fuori di sé: diventa definitivamente il lui mostruoso, perdendosi totalmente nel suo mondo psicotico, senza la possibilità di ritorno.
Torna dalla ex ragazza. Ci sono alcuni flashback di momenti belli con lei intervallati dalle immagini del presente. I ricordi del passato sono delicati, luminosi, puri. Questo fa illudere lo spettatore, che è portato a credere, per un momento, che “lui”, anche questa volta, se ne andrà senza fare nulla. Invece questa volta non si ferma. La scena dell’omicidio è molto potente, perché continuano ad alternarsi scene del passato (lei sdraiata e sorridente) e del presente (lei sdraiata e agonizzante).
Tutto in questo film è destabilizzante: l’assenza di dialoghi, gli stimoli sensoriali eccessivi, alcune inquadrature che sembrano volutamente imprecise, mentre altre ostentatamente mosse, fino a far sembrare che la telecamera sia stata scossa da un terremoto.
Anche nell’ultima scena c’è una scossa, ma è diversa, più tenue e allo stesso tempo più spaventosa. “Lui” è contro un muro, il volto pallido e sanguinante, e il tremolio dell’immagine dà l’illusione di una rottura nella pellicola, di un pezzo mancante, almeno, a me ha dato questa impressione, e mi ha ricordato l’inquietante filmato protagonista del film “The ring”, non so perché.
Shotgun è un lavoro di qualità, che ha effetti sulla mente, sulle emozioni, e anche sul corpo di chi lo guarda. Le vibrazioni dell’ultima scena si sentono nelle ossa, nei muscoli; poi lo sparo: lui si toglie la vita, e il fiato dello spettatore si spezza. Si ricomincia a respirare solo quando vengono proiettati i titoli di coda. È finito. Questo tuffo nella psicosi è finalmente finito.
“Hello darkness, my old friend / I’ve come to talk with you again / Because a vision softly creeping / Left its seeds while I was sleeping / And the vision that was planted in my brain / Still remains / Within the sound of silence / In restless dreams I walked alone / Narrow streets of cobblestone / ‘Neath the halo of a street lamp / I turned my collar to the cold and damp / When my eyes were stabbed by the flash of a neon light / That split the night / And touched the sound of silence”. (Simon & Garfunkel)