Psychofilm

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Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema

Recensioni

Il suicidio assistito: “Mare dentro” e “Miele”

“Mare dentro” e “Miele” sono due film che raccontano in due modi tra loro molto diversi il tema del suicidio assistito, tanto dibattuto a livello bioetico.

“Mare dentro” (2004), racconta la storia vera di Ramon Sampedro (interpretato magistralmente da Javier Bardem), un uomo che a causa di un incidente durante un tuffo in mare, rimane paralizzato. Tetraplegico da quasi tre decenni, da molti anni lotta per vedere riconosciuto il suo diritto di morire.

“Miele” (2013), racconta invece la storia di Irene, detta appunto “Miele”, una giovane donna che pratica clandestinamente il suicidio assistito sui malati gravi che richiedono il suo aiuto. Tutto cambia quando incontra un uomo, l’Ingegner Grimaldi, che le chiede di assisterlo per porre fine alla sua vita pur non essendo affetto da alcuna patologia fisica incurabile.

Narrazione, soggettività, empatia

Per capire gli aspetti psicologici di questi due lungometraggi e le scelte ed azioni dei loro personaggi dobbiamo sapere innanzitutto che quando veniamo a contatto con la storia di qualcuno, quando vediamo o ascoltiamo un racconto, in qualche modo lo trasformiamo inevitabilmente, mettendo in esso un po’ di noi stessi e della nostra storia. La nostra capacità empatica e la nostra comprensione di ciò che gli altri provano, vivono e scelgono, per usare un gioco di parole, sono “soggette alla nostra soggettività”.

Questo è straordinario, da un certo punto di vista; talvolta, però, il nostro sguardo sulle storie può venire in qualche modo “irrigidito” dalla nostra soggettività.

In una scena di “Mare dentro”, l’avvocata Julia dice a Ramon, il protagonista, due frasi in apparente contrasto tra di loro, che ci illustrano molto bene quello che sto cercando di spiegarvi. La prima è: “Credimi, ti capisco molto bene”. Poco dopo, però, Julia chiede: “Ramon, perché morire”?

Julia capisce molto bene Ramon, anche perché rispecchia la sua sofferenza in lui. Anche lei ha una patologia grave che la porterà a una condizione simile, se non peggiore a quella di Ramon (è affetta da una malattia degenerativa che la condannerà anche alla perdita delle funzioni cognitive); per questo comprende lo stato emotivo, le difficoltà, le paure, che la consapevolezza di non poter mai più essere la persona di prima comportano. Ma non comprende perché Ramon non voglia più vivere, perché non riesce a vedere davvero attraverso i suoi occhi, ma filtra ciò che Ramon le racconta in base ai propri schemi mentali e valori personali.

Un altro personaggio che vive una condizione simile a quella di Ramon è padre Francesco, un prete gesuita costretto su una sedia a rotelle. Chi più di lui potrebbe empatizzare con la sofferenza di Ramon? Eppure l’empatia non basta, perché c’è questo parziale rispecchiamento, questa soggettività che fa sì che non si possa sentire l’altro pienamente. Riusciamo ad essere vicini agli altri, ai loro stati emotivi, quanto più riusciamo a capirli o ne abbiamo fatto esperienza, ma credenze, valori, bisogni, desideri differenti fanno di una situazione simile una situazione molto diversa, fanno sì che una stessa condizione porti a vissuti e scelte molto differenti.

Rosa, la donna che lavora in radio e va a trovare Ramon dopo averlo visto in TV, si chiede come può pensare alla morte un uomo che ha degli occhi così pieni di vita. Rosa è una donna che ha molto sofferto ma che ha un approccio positivo alle avversità, e non riesce a capire perché un uomo con degli occhi così sorridenti possa avere dei pensieri così negativi e totalizzanti.

Tra l’altro è molto interessante che Ramon stesso dica a un certo punto del film di aver imparato a piangere ridendo. L’incongruenza tra emozione provata ed emozione espressa si osserva spesso nella sofferenza umana e spiega anche l’apparente contraddittorietà segnalata da Rosa.

Molte delle persone che stanno intorno a Ramon pensano che l’amore o altri aspetti positivi della sua vita possano essere sufficienti per non voler morire.

In “Miele” la difficoltà a capire da parte della protagonista e dello spettatore è portata all’ennesima potenza. Qui non c’è un uomo immobilizzato in un letto, con il quale agganciare un vissuto empatico, seppur soggettivo. Non si capisce perché un uomo sano, intelligente, colto, benestante, con una vita apparentemente normale, voglia morire.

L’ingegner Grimaldi stesso chiede se ci sia una graduatoria, una lista di motivi adatti per voler morire, ma torneremo su questo tra poco.

Comprendere e rispettare o rispettare senza cercare di comprendere?

Abbiamo accennato alla soggettività, ora parliamo invece di un elemento in parte ad essa correlato, quello della comprensione. Alcuni pensano che in situazioni estreme come quelle raccontate in questi film sia importante non tanto comprendere, quanto rispettare le scelte degli altri, per quanto diverse dalle nostre.

Io non sono sicura, sinceramente, che cercare di comprendere e rispettare siano necessariamente due cose in contrasto tra loro.

Cercare di comprendere certe scelte può avere certamente delle ricadute positive. Può portare a stare vicino alla persona che soffre e desidera porre fine alla sua vita nel modo giusto, autentico e anche a una propria accettazione personale.

Si deve rinunciare a comprendere e semplicemente rispettare la volontà dell’altro, un po’ come ci suggerisce Valeria Golino, la regista di “Miele”? Oppure comprendere può aiutare a volte a rispettare la volontà dell’altro e allo stesso tempo a elaborare in modo diverso, accettare, trovare che in fondo l’amore basta, perché amare è anche accettare le scelte dell’altro?

Da questo punto di vista, in “Mare dentro” è interessante il percorso psicologico di Rosa. Ramon le chiede: “Non vorrai pretendere che io continui a vivere per te? Questo lo chiami amore? Trattenermi contro la mia volontà. La persona che mi ama è quella che mi aiuterà a morire”. Quello che Ramon vuole trasmetterle è che la persona che lo ama non può essere quella che vuole costringerlo a vivere.

Rosa rappresenta questo cammino, dal giudizio all’accettazione, dalla comprensione al rispetto. E questo percorso psicologico pare portarla, in effetti, ad una maggiore serenità, che fa pensare a una elaborazione, che fa pensare che la comprensione, l’accettazione e il rispetto abbiano giovato anche al suo stato emotivo oltre che a Ramon.

Un altro personaggio interessante di “Mare dentro” è quello di Manuela, la cognata di Ramon, che è quella che appare avere la posizione più neutra. Sembra non contrastare né sostenere Ramon nella sua scelta. Lei è il personaggio che rappresenta la parte del rispetto per la volontà del malato, senza il tentativo di contaminarlo con la sua soggettività. Infatti dice: “Quello che preferisco io non importa”.

Quindi, a volte può essere utile rispettare senza cercare di comprendere, come fa Manuela, altre volte è lo sforzo di comprendere che porta al rispetto e che aiuta la persona vicina al malato nel suo processo di elaborazione del lutto anticipato. Ci sono delle volte, però, in cui cercare di comprendere può portare al giudizio, alla rabbia, al non rispetto.

È il caso del fratello di Ramon, che reagisce a suo modo alla situazione, che non accetta la decisione del fratello, si ribella, prova rabbia e cerca di fare leva sui suoi sensi di colpa: “Io non conto niente in questa cosa? Sono il fratello maggiore. Ho dovuto lasciare il mare per venire qui e stare con te. Io, mia moglie e mio figlio, tutti schiavi tuoi”. L’uomo si sforza di comprendere, ma i suoi scenari sono troppo distanti da quelli del fratello, e così non ci riesce e non accetta, non rispetta la decisione di Ramon e non lo farà fino alla fine.

Riepilogando, tra i personaggi che ruotano intorno a Ramon troviamo: il tentativo di comprendere con risvolti negativi (il fratello), il rispetto, senza necessariamente passare dalla comprensione a tutti i costi (Manuela), e il rispetto dopo la comprensione che l’altro è diverso da noi (Rosa).

“Mare Dentro” è particolarmente esaustivo nel dipingere le diverse sfumature emozionali dei personaggi, i diversi modi di reagire alla situazione, le diverse soggettività. Alcuni personaggi sembrano addirittura trovare forza in Ramon, chiedere le sue attenzioni più che dargliele, prendere energia da lui anziché fornirgliela (Rosa e Julia principalmente).

Ovviamente dobbiamo tenere conto del fatto che tutte le reazioni dipinte in questo film sono normali, anche quelle apparentemente “più egoistiche” come “vivi per me” o “ho rinunciato a tutto per te” scaturiscono dall’amore, dall’attaccamento, dalla paura, dal vissuto della perdita.

Le persone care intorno al malato devono vivere un lutto precedente alla perdita, devono vivere con la morte e l’idea della morte ogni giorno, pensare ogni giorno a come sarà la loro vita quando perderanno chi amano, sentire ogni giorno che il loro amore non basta.

Un altro aspetto di questo film da considerare è che il tema della volontà di morire è trattato da tutti i punti di vista; ad esempio quello culturale e del senso comune, quello famigliare, quello legale, e quello religioso (il prete, il padre di Ramon che dice che finché Dio vorrà il figlio dovrà continuare a vivere).

“Miele” sembra privo di tutte queste sfumature emotive e concettuali, eppure anche questo film suscita il tentativo di comprendere, anche se è più difficile. Ciò che accomuna i due lavori, però, è la presenza di due vite che per gli altri, attraverso una valutazione soggettiva, valgono ancora la pena di essere vissute, con la variante che a Ramon paiono essere dati maggiori elementi di validazione, perché lui ha un problema fisico irreversibile, perché la sua è una condizione più chiara di quella dell’Ingegner Grimaldi.

Dobbiamo ricordare che i bisogni, i desideri, i valori delle persone possono essere molto diversi tra loro. La soggettività ha importanza anche qui. Ramon lo dice chiaramente: “non i tetraplegici ma io”.

Dignità della vita

Una vita degna o non degna di essere vissuta dipende da molti fattori. Dal livello di dolore o sofferenza, dalla quantità di autonomia rimasta, dalla capacità e competenza conservate o dalla sensazione di essere invece un peso per gli altri, dal livello di speranza, dal livello di consapevolezza, dal supporto o dallo stigma sociale, dalla presenza o no di obiettivi ancora realizzabili, dalla qualità della vita percepita, in relazione ovviamente agli standard personali.

Due scene mi hanno molto colpito di “Mare Dentro”: la prima è quando il nipote di Ramon gli parla del padre, cioè del fratello di Ramon, e gli dice “a cosa serve lui qui”. Lo sguardo di Bardem è profondamente significativo rispetto a come ha accolto questo messaggio a livello personale. È una scena psicologicamente molto curata ed efficace.

La seconda è quando Julia chiede a Ramon di raccontarle la sua storia, dicendo che è importante per il Giudice sapere chi era lui prima. È enormemente interessante il significato emotivo sotteso a questa frase, se ci mettiamo dalla parte di Ramon e empatizziamo con il suo sentire: Chi eri? Perché ora non sei più te stesso, non sei più quello, e non lo sarai mai più. Il tempo della sua vita si è spaccato in due: il passato e il presente-futuro.

Tornando alla vita degna di essere vissuta, dobbiamo considerare che i criteri di significato importanti per una persona possono non esserlo per un’altra.

L’amore ad esempio, è un significato sufficiente per la vita di Ramon? No, dato che l’amore non gli manca. Forse lo è la libertà? Più probabile. Lo dice anche lui: “Accettare la sedia a rotelle sarebbe come accettare le briciole di quella che era la mia libertà”.

Dopo l’incidente non gli è più stato possibile scegliere, muoversi, decidere liberamente. Il senso di costrizione opposto alla libertà fa sentire imprigionati, chiusi in una gabbia che pare avere solo una via d’uscita.

O ancora…Parliamo del valore personale: ci sono persone che puntano tutte le loro fiches su un numero solo; ad esempio: “sono di valore se lavoro, se faccio carriera”; e quando vanno in pensione si sentono inutili, prive di valore, e vanno in depressione. Ci sono persone che ritengono che il valore sia la bellezza o il successo: quante star hollywodiane una volta persa la bellezza o il successo hanno iniziato a far uso di sostanze, o a diventare depresse? Ma alcune no, hanno ricollocato il loro valore in altro.  Il lavoro, il successo, la ricchezza, la bellezza, sono valori criteriali che possono essere persi e se non c’è un senso di valore personale più profondo e stabile, la vita può perdere significato.  

Poi c’è la perdita del senso di appartenenza. Noi ci riconosciamo attraverso ciò a cui apparteniamo e ciò a cui non apparteniamo o non apparteniamo più. La solitudine e l’isolamento possono portare al mancato senso di appartenenza; lo abbiamo vissuto un po’ tutti, a causa del lockdown per il Covid.

Ricordiamo però che la solitudine non è sempre la stessa cosa dell’isolamento sociale. Pensiamo che una persona malata con tante persone intorno non si senta sola. Il dolore, la malattia, la disperazione o hoplessness, il senso di impotenza, si vivono in prima persona, si vivono da soli, per quanto ci siano persone intorno.

I legami, inoltre, possono non rappresentare sempre qualcosa che aiuta ad aggrapparsi alla vita. Si sente di essere un peso, di aver deluso le aspettative degli altri, di essere un problema.

La solitudine inoltre è legata anche a un altro aspetto: torniamo a parlare di comprensione. Quanto spesso accade che, per propositi magari assolutamente buoni o positivi, si cerchi di tirare su il morale a una persona dicendole che ha tante cose belle nella vita? Se diciamo a una persona che sta male, è triste o addirittura depressa che deve reagire, che deve uscire e smetterla di autocommiserarsi, che deve pensare che ci sono molte persone che non hanno tutte le cose che ha lei, una bella famiglia, un bel lavoro, la salute o altro, quella persona sentirà di non essere capita.

Non sentirsi capiti fa sentire soli. La validazione dell’esperienza personale di sofferenza, l’empatia, il far sentire compreso l’altro sono aspetti fondamentali.

Questo aspetto è rappresentato nel film “Miele”, quando Irene dice a Grimaldi che non ha nessuna ragione per togliersi la vita, perché è una persona in salute, agiata e amata.

Quanto possiamo quindi veramente capire, quanto possiamo davvero entrare empaticamente nella testa di un altro senza cercare di comprendere attraverso i nostri personali sistemi di significato e schemi personali? Sospendere il giudizio e rispettare la visione dell’altro può essere difficile, ma dobbiamo provarci.

Se in “Mare dentro” lo spettatore può immedesimarsi non solo nel protagonista ma anche nelle altre persone che lo circondano e empatizzare con le loro modalità di reazione, in “Miele” questo è molto più difficile. Non si sa nulla della storia dei due personaggi principali: l’infermiera perché fa quello che fa? L’ingegnere perché non vuole più vivere?

Depressione e suicidio assistito

Una cosa molto interessante di “Miele” è che questo film porta a una riflessione ancora più complessa sul suicidio assistito, mai trattata prima dal nostro Cinema. Se il tema crea grandi dibattiti e difficoltà quando riguarda persone con malattie infauste e irreversibili del corpo, pensiamo a quante può crearne sulle malattie della mente.

La protagonista di “Miele” dice che non è un giustiziere e che non uccide i depressi (come l’Ingegner Grimaldi).

L’Eutanasia, il suicidio assistito, si riferiscono a qualcosa per cui non esiste una cura. Per la depressione esistono varie possibilità di cura e non è una condizione per definizione irreversibile.

Ci sono delle patologie fisiche dalle quali non vi è alcuna possibilità di guarigione. Ma come possiamo stabilire in modo certo che non ci sia più nessuna speranza di trattamento quando il problema è di tipo psicologico, o che la persona in periodi meno intensi di malattia possa conservare la volontà di morire in modo costante nel tempo?

Le patologie del corpo hanno generalmente delle cause e delle prognosi più prevedibili e chiare, quelle della mente non hanno la stessa chiara prevedibilità. Ad esempio, alcuni sintomi possono cambiare o comunque non essere permanenti, ci possono essere delle situazioni di vita che mutano, delle nuove risorse a livello personale o sociale.

Persone con patologie fisiche gravi hanno un tempo presente di sofferenza e un futuro chiaro, per le persone con patologie mentali il presente è difficile ma il futuro non è prevedibile.

I disturbi mentali non sono condizioni necessariamente irreversibili, molti sono totalmente curabili o migliorabili, con grande riduzione della sofferenza e periodi di vita privi di sintomi.

Un altro aspetto da considerare è che i pensieri anticonservativi sono spesso sintomi psicologici tipici della depressione. Una persona depressa con ideazione suicidaria pensa di non avere soluzioni o vie di uscita dalla sua condizione. La sua richiesta quindi, è volontà di morire legata al libero arbitrio e al principio di autodeterminazione, oppure è un sintomo depressivo? Chi soffre di un disturbo mentale è in grado di fare una scelta consapevole e lucida come Ramon di “Mare Dentro” ha fatto?

Parlando di Ramon, è importante sottolineare che a differenza di ciò che molti pensano, il paziente che chiede il suicidio assistito non è necessariamente una persona con un disturbo mentale; il desiderio di morire non è riducibile al sintomo di una patologia psichica. Certo, una persona può avere dei problemi psicologici precedenti la malattia e ci possono essere persone depresse tra i malati di questo tipo, ma non è una cosa scontata.

Ramon ad esempio è depresso? Uno che combatte con forza per la sua libertà e dignità, che ha superato il problema delle aspettative degli altri, che segue i suoi bisogni e desideri in modo autonomo, che addirittura dà sostegno ed energia ad alcune delle persone che gli stanno intorno, può essere depresso?

Io non credo. Ramon non può più vivere come vuole e sa che questo è un punto definitivo, ma può almeno morire come desidera, se le persone intorno a lui, il Tribunale, la società glielo permettono.

Poniamoci però un’altra domanda: nel caso di una condizione fisica irreversibile il punto sta proprio nella impossibilità della cura. Nel caso della problematica psicologica, quanto nella decisione di morire (anche ad esempio della persona che ha ideazione suicidaria oppure che ha tentato o commesso un suicidio) ha a che vedere con la sfiducia nella cura, nella sfiducia e mancanza di speranza sul fatto che la situazione sia modificabile o reversibile? Dalla mancanza quindi anche di una alfabetizzazione sulla salute e sulla possibilità di trattamento?

Ora, quello che vi porto in riferimento a questo tema, che il film “Miele” ha raccontato coraggiosamente per la prima volta, sono più domande che risposte, più spunti di riflessione che certezze, come avete visto. Il tema è complesso.

Partiamo dal presupposto che i problemi psicologici trovano ancora oggi difficoltà ad essere compresi: è più facile capire la situazione di una persona con una condizione fisica grave che quella di una persona che come l’Ingegner Grimaldi stesso dice “ha una salute di ferro” ma sta soffrendo dentro.

Certo, il film non ci aiuta molto. Grimaldi dice di aver avuto una vita bella ma di aver semplicemente perso interesse e di trovare tutto estremamente noioso. Anche l’infermiera Irene, o Miele, come si fa chiamare, gli dice che non condivide le sue ragioni. Allo spettatore non paiono essere sufficienti queste motivazioni per far coincidere l’intera propria persona con l’idea di morire, mentre Ramon è più vicino al pensabile, al comprensibile, al condivisibile.

Ma la caratteristica di “Miele” è proprio quella di non dare uno sguardo netto, di non dare opinioni a cui si possa o meno aderire o elementi che possano dare un senso da seguire.

Il mondo interiore di Irene e di Grimaldi ci è precluso, come la loro storia di vita; possiamo basarci solo su alcuni indizi e sul nostro modo personale di interpretarli, senza influenze e suggestioni, e questa è una caratteristica distintiva di questo film, una scelta stilistica di difficile realizzazione che ha raggiunto pienamente il suo obiettivo.

Ad esempio, vediamo Irene guardare le fotografie che immaginiamo ritrarre sua madre. La scena ci fa pensare che la madre sia morta e che quella perdita abbia un significato in rapporto alla successiva scelta di operare clandestinamente come infermiera, aiutando coloro che vogliono porre fine alla loro vita. Ma questa è solo una nostra intuizione, un tentativo soggettivo di riempire un vuoto narrativo.

Tornando a quanto detto inizialmente, per il film “Miele” possiamo cercare di rispettare le scelte del protagonista, accettando di non poterne comprendere a fondo le motivazioni, oppure farcire questa tela bianca della nostra soggettività e valutare sulla base di congetture e pre-concetti.

Gli interrogativi che ci vengono posti dalla società, ci spingono a cercare di spiegare il comportamento umano, a cercare delle risposte generali. Dobbiamo ricordarci sempre però l’importanza della soggettività, e che ogni storia umana è una storia a sé, con elementi multifattoriali difficilmente categorizzabili sotto un’unica voce.

Laura Salvai

Sono psicologa, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale, sessuologa clinica e terapeuta EMDR. Amo le storie e mi piace scriverle, leggerle, ascoltarle e raccontarle. Sono la fondatrice del gruppo Facebook "PSYCHOFILM" e la proprietaria di questo sito. Il cinema è per me una grande passione da sempre, diventata con il tempo anche uno dei miei principali impegni professionali.