Psychofilm

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Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema

Recensioni

Antichrist


[Attenzione! Spoiler]


I grandi registi cinematografici hanno spesso subito, all’uscita dei loro film, critiche negative e censure. Pensiamo a Stanley Kubrick, ad esempio, e a come capolavori come “Arancia Meccanica” o “Eyes Wide Shut” siano stati giudicati, inizialmente, come gratuitamente violenti o pornografici. Certo, “Arancia Meccanica” è stata un’opera davvero audace per i tempi in cui è uscita nelle sale (1971), ma ricordiamo che entrambi i film che ho qui citato sono stati tratti da due libri del 1962 e del 1925, scritti rispettivamente da Antony Burgess e da Arthur Schnitzler.

Neanche il lavoro di Lars Von Trier è sfuggito alle sentenze apocalittiche di parte della critica e del pubblico: il suo “Antichrist” è stato etichettato come un film misogino e blasfemo, nonché pornografico, e questa ultima definizione è stata attribuita anche ai suoi più recenti Nymphomaniac I e Nymphomaniac II.

Come tutte le forme d’arte, anche quella cinematografica, può richiedere del tempo per essere compresa e valorizzata: quanti pittori e attori, ad esempio, sono morti in solitudine e miseria, e hanno ottenuto un riconoscimento postumo globale?

D’altra parte, la censura è la migliore forma di pubblicità paradossale per un film. “Io adesso esco, tu non aprire quel cassetto, mi raccomando”! Che effetto fa una frase di questo tipo, al destinatario della comunicazione? Stimola la naturale curiosità e spinge a fare la cosa contraria, oppure no? Ovviamente, la stessa cosa succede quando leggiamo su un sito o una rivista: “Non andate a vedere questo film, è di intollerabile violenza e al limite del disgusto”.

Un aspetto che accomuna tutte le forme d’arte, e dunque anche quella cinematografica, è che il talento artistico può rappresentare, talvolta, uno strumento attraverso il quale esprimere il proprio disagio o la propria sofferenza interiore: basta leggere una poesia di Giacomo Leopardi o guardare un quadro di Vincent Van Gogh per rendersi conto di questo. Si può anche ipotizzare che senza la solitudine, l’amore negato, la malattia, molti poeti e molti personaggi dal grande genio creativo non ci avrebbero regalato delle opere così apprezzabili e di così grande impatto emotivo. Forse, se le vite di alcuni pittori, compositori e poeti fossero state prive di sofferenze e disagi, oggi noi avremmo dei girasoli in meno da ammirare, delle sinfonie in meno da ascoltare, delle poesie in meno da recitare.

“Se sapessi spiegare me stesso con le parole non avrei bisogno di fare film”  (Lars Von Trier)

Lars Von Trier ha messo a nudo in “Antichrist” tutta la sua sofferenza psichica, confessando apertamente di avere sofferto di depressione e di avere traspositato in questa sua incredibile opera tutto il suo dolore, con un intento anche catartico.

Chi è il pazzo? Colui che è in grado di esprimere in modo così sublime ed esteticamente raffinato il dolore, l’inferno interiore del lutto, le ferite profonde dell’anima, o colui che non riesce a comprendere il palese valore di questa narrazione sui meccanismi della psiche umana?

La scena di apertura del film, interamente girata in bianco e nero e priva di dialoghi, è raccontata al rallentatore e scandita dalle sublimi note di “Lascia ch’io pianga” di Handel. Lars Von Trier inizia la sua narrazione in modo simile al successivo primo capitolo del film Nymphomaniac, solo che nel film più recente offre dapprima un’esperienza uditiva crescente, passando dal silenzio ai suoni delicati della pioggia che cade, per poi sconcertare lo spettatore con l’improvviso e quasi doloroso bombardamento sonoro dell’industrial metal dei Rammstein, mentre in “Antichrist” i suoni sono delicati, raffinati, e l’elemento metereologico (la neve che cade) non offre stimoli uditivi, anzi, quasi li attutisce, rendendo la scena ancora più rallentata dal punto di vista percettivo.

Non so se il regista danese abbia tratto ispirazione, per i primi minuti del suo film, da un fatto di cronaca, ma per me è stato quasi immediato il ricordo della tragedia occorsa all’inizio degli anni novanta al chitarrista Eric Clapton e alla sua compagna Lory Del Santo, quando il loro bambino di 5 anni, Conor, cadde da una finestra del loro appartamento, inavvertitamente lasciata aperta. Negli archivi online de “La Repubblica” si legge: “NEW YORK – Senza un urlo, senza un gemito, muovendo le braccia e le gambe come se cercasse di riprender quota, di aleggiare tra i grattacieli di Manhattan, è volato giù dal cinquantatreesimo piano. Ma lui non era una rondine né un aeroplano. No, era un bambino: grandi occhi, capelli biondi, appena cinque anni […]. Così il piccolo Conor è morto come nessuno vorrebbe morire, sfracellandosi contro un terrazzino dopo un tuffo di più di cento metri”.

La scena iniziale di “Antichrist” sembra una fotocopia di questa descrizione: la finestra aperta, il bambino che sale sul cornicione per guardare la neve che cade e vola giù, quasi accolto dal tappeto bianco su cui finisce. Silenzio. La scena non trasmette nessun dolore, nonostante la tragicità dell’evento. Il bimbo è sorridente, apre le braccia come per volare, e si avverte quasi un senso di libertà quando si guardano le immagini al rallentatore, libertà invocata anche dal testo dell’aria di Handel:

“Lascia ch’io pianga / La cruda sorte / E che sospiri / La libertà”!

Non c’è consapevolezza, solo innocenza, come per il piccolo Conor, incuriosito anche lui probabilmente da quella finestra lasciata aperta, dal mondo fuori. La delicatezza delle immagini del film, il fatto che lo spettatore sia lì, in quel momento, a respirare l’aria fresca con il bambino, a guardare i fiocchi bianchi che cadono, a sentire quasi sollievo e senso di libertà, non prepara alle emozioni che il resto della pellicola porterà ad esperire. Dolore, lutto, disperazione, morte dell’anima.

In Nymphomaniac vol.II questa scena verrà riproposta in modo quasi identico: la protagonista, accecata dal craving della sua sex addiction, lascia il figlio solo in casa. Il bambino, svegliatosi durante la notte, raggiunge il balcone e si arrampica fino alla ringhiera. La musica di sottofondo della scena è la stessa di Antichrist. La sequenza, però, questa volta, non si conclude tragicamente, grazie all’intervento tempestivo del padre del piccolo, che lo salva prima che cada nel vuoto.

Il film è pieno di simbolismi, di riferimenti biblici (es.la casa nei boschi si chiama “Eden” e i due protagonisti sono un uomo e una donna, come Adamo ed Eva), di riferimenti storici (la caccia alle streghe, perpetrata dagli uomini: nella pellicola il marito uccide la moglie e ne brucia il corpo così come le streghe venivano bruciate nel periodo dell’Inquisizione) e psicologici. Ci sono così tanti particolari, artistici e semantici a cui dare valore che una sola visione non è sufficiente.

Uno dei tanti aspetti rilevanti di “Antichrist” è sicuramente quello della relazione tra Willem Dafoe, che interpreta LUI e Charlotte Gainsbourg, che interpreta LEI (i personaggi di Lars Von Trier sono spesso scarsamente identificati, pensiamo ad esempio a Nymphomaniac, in cui sono chiamati solo con delle lettere). LUI e LEI sono marito e moglie ma quando il loro figlio muore, LUI, che è uno psicoterapeuta, decide di prendere la sua stessa consorte in terapia, contrariamente a tutte le regole professionali ed etiche. La donna diventa il paziente designato, quasi l’uomo non fosse coinvolto dalla tragedia, e farle superare il lutto e la grave depressione diventa la sua missione principale. Paradossale la scena in cui LUI dice a LEI che non è corretto avere rapporti sessuali, come se comportarsi da  moglie e marito fosse la cosa sbagliata e non comportarsi da terapeuta e paziente avendo una relazione di tipo affettivo/sessuale pregressa.

Guardare questo film è doloroso, fa così tanto male da sembrare una tortura psicologica. L’angoscia, la disperazione, la crudeltà, la paura, il dolore fisico e psichico, attivano i neuroni specchio dello spettatore come la corrente attiva le lampadine di un albero di Natale. Non c’è nessuna certezza a cui aggrapparsi, per tutta la durata della visione. Il padre prova dolore oppure no per la perdita del figlio? Il lavoro “terapeutico” con la moglie è per il bene della moglie o per il suo ego (l’altro professionista non ti sta curando bene, dice alla moglie, per questo ora lavorerò io con te)?

La madre aveva visto che il figlio era sulla finestra (lo si capisce successivamente, questo, e non nella prima scena); perché non ha smesso di fare l’amore con il marito e non è corsa a salvarlo? Poteva evitare la tragedia e non lo ha fatto consapevolmente? Teneva forse più al suo orgasmo che all’incolumità del figlio? In questo caso, la scena ripetuta in Nymphomaniac II sarebbe caratterizzata dallo stesso “egoismo orgasmico” e l’unica differenza tra i due film sarebbe il diverso esito dell’incuria materna.

LEI da vittima diventa progressivamente carnefice nel corso del film. LUI scopre, ad esempio, che la moglie metteva volutamente le scarpe al contrario al figlio per procurargli una malformazione dei piedi. La donna stessa dice, quando parla della sua tesi sulla stregoneria, che prima era partita dal presupposto che le streghe fossero delle vittime innocenti, per poi arrivare alla conclusione che si meritassero di essere perseguitate e uccise, in quanto colpevoli.

I cambiamenti di visione sui due personaggi che lo spettatore esperisce nel progredire della narrazione aprono un altro argomento interessante dal punto di vista psicologico. Il rapporto della coppia sembra essere caratterizzato dalle dinamiche tipiche del triangolo drammatico, in cui a turno, entrambi, recitano i ruoli di vittima, salvatore e carnefice.

Non è facile analizzare tutti gli elementi di questo capolavoro cinematografico, come non è possibile inquadrarlo in un genere (drammatico, horror?); sarebbe anche assurdo averne la pretesa, implicando questa forma d’arte più fattori soggettivi che oggettivi. Forse avrete amato come me quest’opera o forse l’avrete odiata, ma in ogni caso è giusto apprezzare la sensibilità e la raffinatezza con le quali Lars Von Trier ha messo a nudo il suo mondo interiore, guardando tanto intensamente l’abisso, da far sì che l’abisso guardasse dentro di lui, come diceva Nietzche. E di filosofia in questo film ce n’è parecchia, tra l’altro.

Laura Salvai

Sono psicologa, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale, sessuologa clinica e terapeuta EMDR. Amo le storie e mi piace scriverle, leggerle, ascoltarle e raccontarle. Sono la fondatrice del gruppo Facebook "PSYCHOFILM" e la proprietaria di questo sito. Il cinema è per me una grande passione da sempre, diventata con il tempo anche uno dei miei principali impegni professionali.