ToHorror Film Fest 2017 – Il cartografo
“È una lotta tra un pianeta che si esprime e una razza che non lo comprende”
Il cartografo
Si è aperta con un interessante lungometraggio di animazione la diciassettesima edizione del ToHorror Film Fest, martedì sera. “Il cartografo”, film fuori concorso realizzato dal collettivo Megabaita, che vede tra i suoi fondatori il duo elettronico Uochi Toki, è un’opera interamente realizzata in digitale e composta da 10 episodi. Il film racconta la storia di un futuro post-apocalittico, in cui la Terra, desertificata, è popolata solo da un esiguo numero di esseri umani che in un brevissimo tempo si sono dovuti adattare alle modificazioni ambientali e climatiche successive all’evento catastrofico denominato “le intersezioni”. La narrazione avviene attraverso un monologo imponente, grazie alla voce narrante profonda e penetrante di Giovanni Succi, elemento fondamentale per il clima suggestivo e teatrale del film.
Le condizioni di vita sulla Terra sono cambiate repentinamente e hanno richiesto ai pochi umani rimasti a popolarla un adattamento altrettanto rapido per sopravvivere. Il mondo animale, vegetale e minerale si è fuso a formare quelli che il protagonista ha denominato genericamente urgut (parola che ha sentito sibilare dal vento) una categoria variegata di elementi, alcuni dei quali ha scoperto essere commestibili. Il narratore pone lo spettatore in uno stato di disagio, chiedendogli di immaginare un mondo privo di qualunque punto di riferimento, in cui tutto è nuovo, tutto è da scoprire, e tutti gli schemi mentali sono da ricostruire. Cosa è cibo e cosa non lo è? Quella che sembra acqua (e che il protagonista del racconto chiama or) è acqua? O si è fusa con qualche animale o vegetale e ha delle diverse proprietà rispetto a quelle fino a quel momento conosciute?
“La luna è diversa, è uguale, è cambiata, ha una nuova natura da quando tutto si è intersecato. È comunque lei. Le ho trovato un altro nome: nuuv. È diversa nella forma, perché non è visibile. È diversa nella sua collocazione, perché non è situata al di fuori dell’orbita terrestre”.
Il primo elemento di riflessione su questa narrazione è relativo all’arbitrarietà del linguaggio: non esiste un legame logico tra significante e significato eppure gli oggetti dell’esperienza divengono rapidamente famigliari, nel momento in cui viene dato loro un nome. Sono sufficienti 5 minuti di visione allo spettatore per riconoscere un urgut e successivamente capire una frase in cui c’è la parola or diventa automatico. Questa volta però non siamo di fronte a un linguaggio convenzionale, bensì a una forma soggettiva di attribuzione linguistica, condivisa esclusivamente con lo spettatore. Il nostro cervello riesce anche rapidamente a riorganizzare il mondo in categorie (urgut) e sottocategorie (i nomi specifici che il protagonista dà agli urgut che ha conosciuto o utilizzato). L’impressione però può anche essere un’altra: che urgut sia tutto ciò che non è ancora stato definito e non la categoria macro che racchiude in sé delle sottocategorie. Cioè, non è come dire “animale” (categoria) e “cane” (sottocategoria di “animale”), ma è come dire “cosa” e poi specificare, una volta compreso ciò che si ha di fronte, di che cosa si tratta.
Il nuovo linguaggio creato dal protagonista, viene collegato talvolta al linguaggio pre-intersezioni, e questo aiuta il pubblico ad associare le parole alle cose. È ciò che succede ad esempio per la denominazione dell’acqua, che forse non è l’acqua per come la si conosceva prima (or), o per quella che una volta era la luna, che è lei ma non è lei (nuuv). Vi è anche un riferimento al modo in cui, nel passato, l’uso del linguaggio in senso metaforico avesse svuotato molte parole del loro vero significato. Il cartografo, infatti, fa l’esempio dell’abitudine comune a parlare di “morire di fame” anche quando la morte per fame non esisteva più nei paesi capitalisti occidentali ed era più diffusa, invece, la morte per eccessiva e non regolata alimentazione. Si potrebbe dire lo stesso per molte altre espressioni che utilizziamo quotidianamente con valore semantico molto distante da quello originario.
Non è solo il linguaggio a dover essere ridefinito , anche il tempo non è più misurabile nel modo convenzionale. La misurazione di un anno coincide o no con quella precedente alle intersezioni? “Mi va di far coincidere a 12 anni il tempo che non mi guardo allo specchio”, dice il narratore.
Non c’è più società, non c’è più senso di appartenenza, non c’è definizione tramite gerarchia o ruolo, se non quello che ognuno si attribuisce singolarmente, non c’è più valore criteriale (ricchezza, successo) ma solo ontologico. “Tutte le persone mostrano una sensibilità che nasce dalle profondità insondabili dell’essere e non sono nate dall’aggregazione”.
Il narratore ha trovato il suo compito nel nuovo mondo: mappare la terra, scrivere di tutto ciò che vede e le storie dei pochi esseri umani che incontra sul suo cammino. “Incontrare un altro essere umano è un evento. Un evento sporadico. Un evento che si celebra con lunghi periodi di ospitalità”. Sarebbe bello poter catalogare anche tutto ciò che è commestibile, ma aggiungere alla mappatura anche il compito di assaggiare tutti gli urgut sarebbe troppo per lui.
Non c’è casa, se non quella che si abita provvisoriamente durante le tappe del viaggio. I ruoli e gli scopi si intersecano, come si sono intersecati gli elementi: da abitante che ospita a viandante, da viandante a ospite di un abitante; ricerca degli urgut da cui ricavare la carta su cui mappare gli urgut da cui ricavare la carta; cercare la carta su cui scrivere la propria esperienza e fare nuova esperienza camminando per cercare la carta.
Abituarsi alla nuova condizione di vita sulla Terra non è solo comprendere ciò che sta fuori, ma anche conoscere nuovi aspetti di sé. La notte è terribilmente buia, manca qualsiasi tipo di illuminazione, perché l’elettricità non esiste più, la luna non è visibile, e la luminosità delle stelle è oscurata dalla polvere. Ci si deve sdraiare, restare fermi, attendere di avere nuovamente qualche punto di riferimento visivo. Finché gli occhi del cartografo iniziano ad emanare una luminescenza colorata: “me ne sono accorto da poco, è stato anche difficile capire che erano i miei occhi”. “Quale la causa di questo fenomeno che mi permetteva di scrivere anche nell’oscurità? Era un effetto collaterale dell’uso dell’urgut del flusso di memoria”. Si tratta di un urgut con una forma che fa venire voglia di sdraiarcisi sopra e, una volta che si è supini sulla sua superficie, ci si trova ad essere immersi nei ricordi che la memoria aveva deciso di non selezionare. Una specie di viaggio lisergico nella consapevolezza profonda, dall’intensità che lo spettatore percepisce nella scena.
Tutto deve essere rimappato nel cervello, non solo l’ambiente, ma anche l’immagine di sé. I gusti dei “cibi” sono delle mescolanze di elementi diversi, mai percepite prima. Gli effetti dei cibi sul corpo non sono prevedibili.
Stare male non è riconducibile a nessuna problematica di salute pregressa. “Una malattia o una condizione? Un disturbo o una suggestione”? Non resta che dimenticarla, quando svanisce, perché non si può chiedere a qualcuno che si incontra di una malattia che non ha mai provato. “La malattia è dimenticata, rimangono solo il vivere e il morire”.
L’unica cosa prevedibile è la presenza del rumore, costante, disturbante: venti assordanti, smottamenti di dune e quelli che un tempo venivano chiamati terremoti, ma che ora non sono più temuti, perché non c’è nulla che possa essere distrutto o danneggiare l’uomo, c’è solo il deserto. L’effetto sensoriale del frastuono tellurico è descritto dal protagonista in modo sinestesico: “un suono che accecava le mie orecchie”.
Il cartografo non pare essere angosciato dalle nuove condizioni di vita. L’unico momento in cui sembra destabilizzarsi è proprio quando nel suo cammino incontra quella che sembra essere una società ispirata al passato pre-intersezioni. Trova, infatti, un insediamento umano, un sistema organizzato di case sotterranee che ospitano una cinquantina di persone, più o meno lo stesso numero di persone che ha incontrato da quando ha iniziato il suo viaggio. “Il sorriso tentacolare della civiltà”, fatto di rituali di saluto, di gerarchie precise; c’è un capo della comunità, definito da una professione, quella di ingegnere, che pare del tutto anacronistica nel nuovo mondo. Il cartografo descrive il suo stato d’animo come un profondo malessere, legato all’essersi imbattuto “nell’antico terrore di una gerarchia umana”.
L’ingegnere ha costruito un macchinario, chiamato “la clessidra ad acqua lunare”, utilizzando diversi tipi di urgut, che sfrutta la gravità inversa causata dal passaggio di nuuv, distribuendo or in tutte le case e producendo energia. Il cartografo conia un altro neologismo (igomira) per rinominare la clessidra, forse perché i termini usati dall’ingegnere sono troppo vicini alla vecchia civiltà e sono anacronistici come la macchina stessa: “quella costruzione non correva nel flusso in cui stavamo vivendo”. Prima di ripartire per il suo viaggio, il narratore sabota il macchinario portando via alcuni pezzi: “non ho impedito il progresso ma un vecchio tipo di progresso che non funziona”.
Nel decimo e ultimo episodio del film viene rivelato il vero scopo del cammino del cartografo, nonché la funzione dell’urgut a forma di ramo che gli sporge dalla testa e che si scoprirà avere la capacità di produrre dei frutti poliedrici, capaci di chiudere dei crateri. Vi ho già rivelato molto, ma non intendo rivelarvi tutto.
L’effetto di questo film è disturbante, provocatorio, ma non angosciante, semmai molto onirico. È come guardare un sogno: assurdo ma allo stesso tempo con un senso.
In psicoterapia spesso si usa chiedere al paziente una parola per descrivere un suo disegno, un’esperienza, se stesso o il suo posto sicuro. Se dovessi descrivere con una parola questo lungometraggio, direi “intelligente”. Alcuni altri forse potrebbero dire “assurdo”, “filosofico”, “distopico” o descriverlo con mille altri termini secondo la loro personale esperienza di visione. Io l’ho trovato soprattutto interessante per la sua analisi raffinata e densa di spunti culturali, sociali e psicologici. Un’esperienza di cinema davvero originale e un lavoro molto apprezzabile, considerate le risorse minime con cui è stato realizzato. Quando c’è un obiettivo chiaro, c’è creatività, passione, dedizione e cultura, il risultato non può che essere “intelligente”.