The Nest – Il Nido: dietro le quinte del film con l’attore Fabrizio Odetto
“The Nest” (“Il Nido”) è un film horror-gotico diretto da Roberto De Feo attualmente in programmazione nelle sale italiane, che narra la storia di un ragazzino (Samuel, interpretato da Justin Korovkin) che vive insieme a sua madre Elena (interpretata da Francesca Cavallin) in una grande residenza isolata e circondata da boschi, chiamata “Villa dei Laghi”. Samuel è su una sedia a rotelle, ma il suo problema fisico non è la sua sola o principale fonte di costrizione, infatti, sul giovane ragazzo preme il peso di un controllo materno totalizzante, che gli impedisce di allontanarsi dalla tenuta e lo chiude in una vita routinaria, priva di apparenti pericoli ma anche di libertà. “Villa dei Laghi”, però, inizia ad essere teatro di fatti inquietanti e quell’equilibrio famigliare costruito e faticosamente mantenuto, rischia presto di essere messo a rischio quando Samuel conosce Denise (Ginevra Francesconi), una giovane ragazza che proviene dall’innominato e assai temuto “Mondo Esterno”. Attraverso l’amicizia con Denise, Samuel cresce, inizia a opporre resistenza alle restrizioni che gli sono state imposte e a cercare di far luce su ciò che gli sta intorno.
I rapporti sentimentali fra Samuel e la schiera familiare-parentale all’interno del mondo ovattato della tenuta sono pressoché perfetti, idilliaci (quasi fiabeschi). Con uno solo fra tutti Samuel sembra però conservare un rapporto reale, autentico; un rapporto che gli consente di essere spontaneo e di manifestare tutti i suoi desideri, anche quelli più nascosti e proibiti. Stiamo parlando di Filippo (interpretato da Fabrizio Odetto), un personaggio dal passato doloroso e oscuro che ha un ruolo chiave nel film.
Fabrizio oggi è tornato a trovarci per raccontarci la sua esperienza di attore in questa pellicola, che consiglio a tutti gli psicocinefili, per gli importanti macro-temi di interesse psicologico che tratta, come quello dell’attaccamento e appunto del binomio sicurezza-libertà, di cui Psychofilm ha già parlato in un articolo precedente (“Monolith – tra sicurezza e libertà”).
Filippo è un uomo che si occupa di mantenere la sicurezza all’interno della tenuta, e ha un carattere oscuro e complesso. Come ti sei preparato Fabrizio ad affrontare un personaggio così profondo e sfaccettato?
Per costruire questo personaggio, ho lavorato molto sul rapporto affettivo tra Filippo e Samuel, cercando di costruire con lui un legame spontaneo, autentico, sincero (condizione essenziale per giustificare il futuro dipanarsi degli eventi che li coinvolgono). Il carattere di Filippo doveva mostrare, da una parte, la durezza dell’uomo d’azione e l’enigmaticità del burbero dalle poche parole, e dall’altra, la bontà d’animo interiore… sì, perché in realtà Filippo è un buono, ma non un buono da fumetto, un buono a tutto tondo, che mostra la sua umanità nascosta con le azioni, più che con le parole.
Ti sei chiesto perché la scelta per questo ruolo sia ricaduta su di te?
Il regista ha fatto tantissimi provini per questo ruolo e quello che si aspettava dall’attore che avrebbe dovuto interpretare Filippo era che legasse bene con Samuel (il giovane protagonista). Insomma, voleva che guardandoli insieme nell’inquadratura i due fossero “belli”.
Oltre che un’esperienza molto importante, è stata per me una vera sfida! Questo perché, come già dissi al regista ai tempi del provino, io non ho figli e non ne avrò in questa vita (ormai la possibilità è sfumata, e a dire il vero non credo di esserci tagliato). Mi intrigava molto quindi affrontare un personaggio che vivesse queste dinamiche relazionali e psicologiche.
In tutte le scene del film che coinvolgono Filippo e Samuel, emerge tra loro un rapporto umano molto bello; sono “teneri”, e questa tenerezza è importante, anzi fondamentale per procedere nella trama e gettare le basi di determinate svolte narrative.
Come è stata la tua esperienza sul set?
Il rapporto che ho avuto con il regista, durante la lavorazione, è stato ottimo. Sul set c’è sempre stato un grande equilibrio, nessuno ha mai prevaricato. Abbiamo tutti lavorato con grande concentrazione, senza mai perdere il focus di ciò che stavamo facendo, senza mai dare la priorità a interessi personali. Non si sono mai registrati dissapori o litigi tra gli attori, né tra gli attori e il regista, e questo perché Roberto è una persona squisita.
Gli ambienti artistici sono spesso covo di personalità dall’Ego smisurato: attori, attrici, registi, ecc… Le meccaniche della prevaricazione possono manifestarsi in qualunque momento durante le lavorazioni. Ebbene in questo film non è successo, anche e soprattutto, ripeto, grazie al regista, Roberto De Feo: un uomo pacato, discreto, dalla personalità gentile che non ha mai espresso il suo volere con irruenza. Egli ha sempre scelto la via del dialogo con gli attori; grazie al cielo è uno di quei registi che sono convinti che gli attori siano esseri pensanti, creativi, esseri che possono dare il loro contributo artistico all’opera. In diverse occasioni infatti è capitato di discutere a proposito di determinate cose che non tornavano, e dal confronto sono emersi interessanti cambiamenti che hanno migliorato il risultato finale.
Il dialogo costruttivo tra attore e regista è a mio avviso una condizione essenziale per la buona riuscita di un film. È stata un’esperienza fantastica! Abbiamo lavorato tutti insieme in grande armonia, per ottenere il miglior risultato possibile.
Come descriveresti il linguaggio narrativo di questo film?
Al giorno d’oggi i film d’azione (thriller, horror, gli action in genere) hanno bene o male tutti lo stesso taglio; la fa da padrone un certo stile di cinema americano che ha imposto un montaggio dai ritmi adrenalinici, sincopati, ansiogeni, che mirano a mantenere viva l’attenzione (un po’ a cazzotti), con continui colpi di scena, effetti, botti e schioppi. Queste dinamiche si sono insinuate ormai un po’ dappertutto.
Determinate correnti del cinema europeo, che io adoro, hanno però resistito stoicamente; stiamo parlando di un certo cinema francese e anglosassone, e del cinema nordico, che hanno apertamente ripudiato questi stilemi. Pensiamo a Trier, a Refn… Tutti figli, nipoti, o pronipoti del grande maestro Stanley Kubrick (che a mio avviso è, e forse resterà, il più grande regista di tutti i tempi).
In “The Nest”, Roberto De Feo ha scelto di utilizzare un respiro narrativo più dilatato, più vicino al thriller psicologico, basato sull’attesa, sul non sapere. Il pubblico di oggi (specialmente quello del film di genere) spesso si aspetta di vedere la minaccia, così da poterla riconoscere.
Qui la minaccia si intuisce, si immagina, si teme … è una minaccia celata che si confonde, come si confondono i concetti di bene e di male, di zona sicura e di zona d’ombra… in questo film può accadere infatti che la fiducia verso gli oggetti del proprio amore si trasformi in diffidenza, e che la paura verso l’ignoto si trasformi in stimolo di vita.
Personalmente amo molto il cinema europeo e nordico di cui parli e questi stili narrativi rallentati. Trier, Kubrick e anche Annaud sono dei maestri incontrastati da questo punto di vista. Credo dunque che valorizzare questa opera italiana che si ispira a questo modo di raccontare anche meno facile, meno seduttivo nei confronti del pubblico, e d’altra parte più intellettuale e concettuale, sia doveroso. “The Nest” è un bel film, lo possiamo dire.
“The Nest” è un bel film e il pubblico lo sta confermando. Infatti è stato rilanciato per la seconda settimana (lo troverete nelle sale almeno fino al 28 agosto) e speriamo che venga confermato anche per la terza, chissà.