Psychofilm

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Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema

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La zona di interesse

La zona d’interesse (2023) è un film scritto e diretto da Jonathan Glazer, tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, che racconta la quotidianità apparentemente banale di una famiglia non qualunque, quella del comandante del campo di concentramento di Auschwitz.

Questa opera, classificata nel genere drammatico, si rivela essere un vero e proprio film dell’orrore, agghiacciante nella sua finta semplicità, dietro la quale si erge invece un’impalcatura solida e studiatissima, nella regia, nella fotografia, nella sceneggiatura, nella scenografia e nel montaggio.

Un’opera artistica in tutti i sensi, che dipinge, con colori vivaci, scene bucoliche da sogno distensivo, nascondendo con maestria il peggiore incubo che si possa immaginare. Sembra di trovarsi di fronte a “Il trittico delle delizie” di Hieronymus Bosh, ma qui il giardino del paradiso non è separato dall’inferno da pannelli diversi, ma da un muro. Un muro che si vede parzialmente e che non svela il terrore che racchiude, ma lo fa solo immaginare, attraverso pochi indizi, svelati al momento giusto, come elementi di disturbo nella quiete e apparente perfezione della bolla protettiva in cui i protagonisti e lo spettatore vengono rinchiusi.

La narrazione è minimale, ma estremamente efficace, e la scenografia è teatrale: tutto si svolge nei pochi metri quadrati di una casa, contornata da un prato verde con piante e fiori. La vita dentro il campo di sterminio non si vede mai; quando il comandante si reca al “lavoro”, semplicemente sparisce. È come se dove finiscono i colori ci sia un portale che trasporti in un’altra dimensione, buia, che non può essere vista, che viene negata o rimossa.

La normalità del male

Un film sull’Olocausto così, non si era mai visto. La narrazione si svolge attraverso un racconto indiretto, ma estremamente efficace, perché sottile, pieno di simbolismo.

L’apparente bellezza e armonia delle scene, la perfezione delle immagini, dipinge la famiglia ideale, ma non quella che ci hanno trasmesso le pubblicità delle merendine, e di questo lo spettatore si accorge subito, attraverso delle continue “intrusioni” di suoni, storie, “non detti” e “non visti” che scavano lentamente cuore e cervello come una goccia che cade costantemente nello stesso punto. Lo stereotipo di famiglia che La zona di interesse descrive è quello della ideologia nazista, ma in qualche modo tocca un tema che è sempre presente, quello della famiglia ideale, promossa non solo dal marketing ma anche dalla cultura, dalla religione e dalla politica. La normalità è perfezione e la normalità è qualcosa che viene stabilito dall’esterno: il corpo perfetto, la famiglia perfetta.

Il giardino paradisiaco è solo una tappezzeria, un’immagine proiettata che nasconde, con i suoi colori e la sua luce, il grigio e il nero dei muri che dividono, dei fili spinati, delle vite spezzate, dell’emarginazione e discriminazione, delle ciminiere e del fumo, dei forni crematori, delle torture e degli esperimenti medici, della fame e dell’ingiustizia.

È la normalità del male, che sembra così lontano, ma invece è molto vicino, se si ha il coraggio di guardare oltre l’apparenza, se si abbassano un po’ le luci che accecano.

Ciò che si vede non è ciò che è: alcune terribili sequenze dal film

La zona di interesse è un film che racconta oltre ciò che racconta. Un film che dà per scontata la memoria, perché se la memoria storica non ci fosse o si spegnesse, questa opera avrebbe un significato che nessuno coglierebbe.

Ecco alcune scene di apparente normalità che rivelano una sotto-narrazione di grande impatto emotivo:

– Una donna distribuisce dei vestiti alle sue “domestiche” e si prova una pelliccia di fronte allo specchio. Tutta questa sequenza appare normale, quotidiana. Però viene un sospetto: forse quelle donne che lavorano nella casa della moglie del comandante di Auschwitz sono delle prigioniere. Forse quei vestiti che la donna sta provando e distribuendo non sono suoi, ma vengono dal campo. E allora l’immagine di normalità immediatamente si sporca, diventa spaventosa.

– La madre della donna viene in visita e racconta un episodio normale, quotidiano, che tutti possiamo sperimentare: il treno si è fermato e faceva molto caldo nei vagoni, tanto che una passeggera è svenuta. Immediatamente viene da pensare ai treni della morte, al binario del campo di Birkenaw. Così, la lamentela della signora ci fa provare un improvviso ribrezzo.

– La figlia mostra alla madre che in casa è stato installato il riscaldamento centralizzato, perché lì in inverno fa freddissimo. Banale, no? Peccato che oltre quel muro di fronte, che quando la vite crescerà finalmente verrà coperto, molte persone come lei stanno soffrendo il freddo e a volte vengono prese a secchiate d’acqua per vedere quanto resistono prima di congelarsi.

– A un certo punto, l’ospite dice alla figlia che nel campo ci deve essere la donna ebrea per cui lei lavorava. Per un momento, lo spettatore pensa che abbia un cuore, perché dice di essere dispiaciuta. Ma la sua frase si conclude con un pugno allo stomaco: il suo dispiacere è dovuto al fatto che la signora ebrea aveva delle bellissime tende in casa, che avrebbe voluto prendere lei, ma le sono state soffiate da una vicina. Poi, non contenta, proprio lei che lavorava per un’ebrea, indicando le aiutanti della figlia, le chiede come può essersi messa in casa delle ebree, con tono di biasimo.

– Due bambini sono sdraiati nel loro letto a castello, in cameretta. Il bambino nel letto superiore è illuminato da una lieve luce e sta facendo qualcosa. La scena ci rimanda subito a qualcosa di familiare: chi di noi non ha fregato i genitori facendo finta di dormire per poi usare la luce di una torcia per leggere libri e fumetti, o per giocare? Ma l’inquadratura si stringe su un particolare. Il bambino ha in mano una scatola di fiammiferi, che rovescia sul letto. La scatola contiene denti umani.

Non sono solo i dialoghi o le immagini a creare il disturbo, a sporcare sistematicamente le scene di apparente normalità, a mostrare che ciò che si vede e ciò che è sono due cose molto diverse. Anche i suoni sono protagonisti nello smontare la finta bellezza delle scene: ad esempio le urla strazianti che provengono dal campo di concentramento mentre lo spettatore assiste a un dialogo all’interno del giardino delle delizie, e vengono inquadrati fiori colorati e prati verdi.

Poi ci sono i problemi comuni a tutte le famiglie, quelli lavorativi. Il comandante si è speso moltissimo per il suo lavoro e adesso sembra che stiano richiedendo il suo trasferimento. Dovranno abbandonare la casa, quel giardino che la moglie ha curato con amore. Lui parla al suo cavallo, dicendogli che sarà dura anche per lui separarsi dalla loro casa, mentre le persone al di là del muro hanno perso ogni cosa.

Come se non bastasse, anche i suoi sottoposti gli creano dei problemi, che ora deve risolvere attraverso un qualche tipo di provvedimento disciplinare. Le SS vanno punite per aver raccolto i fiori dai cespugli del campo, ma non per aver strappato ogni giorno la vita alle persone.

Il problema principale, per i nazisti, è mettere a punto un progetto che possa sterminare in modo continuo le persone senza dover fermare i forni. E per questo c’è già chi ha fatto una proposta, con lo sviluppo di un processo estremamente efficiente. Tutto questo mostra una mentalità industriale di sterminio: la macchina non si può fermare per le “manutenzioni” (togliere via la cenere dei corpi), la “produzione” deve continuare.

Le riunioni dei nazisti sembrano quelle aziendali, dove si promuove chi si è distinto per la “produzione”. Peccato che nulla venga prodotto da queste persone, ma tutto sterminato e distrutto. Molto suggestiva l’inquadratura della sala riunioni dall’alto, dà un senso di vertigine, come se si stesse guardando nell’abisso, e l’abisso stesse guardando noi.

Una metafora dell’indifferenza

La zona di interesse è un film così pieno di simboli e metafore che merita una seconda visione. Non credo di aver colto tutto ciò che trasmette, e forse è meglio così, perché è tutto “troppo”. Certamente, però, questo film è una lucida metafora dell’indifferenza: molti di noi hanno coltivato in passato e ancora oggi coltivano il proprio orticello, senza empatia per ciò che è appena a pochi metri da loro, o oltre i loro confini.

Laura Salvai

Sono psicologa, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale, sessuologa clinica e terapeuta EMDR. Amo le storie e mi piace scriverle, leggerle, ascoltarle e raccontarle. Sono la fondatrice del gruppo Facebook "PSYCHOFILM" e la proprietaria di questo sito. Il cinema è per me una grande passione da sempre, diventata con il tempo anche uno dei miei principali impegni professionali.