Psychofilm

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Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema

BackstageInterviste

Cinema, teatro, serie tv: dialogo con l’attore e doppiatore Fabrizio Odetto

Ore di chat, messaggi vocali, sms, mail, telefonate. Confronti, stimoli, suggestioni, idee, progetti. L’incontro con Fabrizio è stato un incontro umano e professionale ricchissimo, estremamente fertile, tanto che i semi che abbiamo piantato insieme stanno già germogliando, e assumendo forme sempre nuove, curiose, e diramazioni inaspettate e piene di colore. Mi trovo di fronte a un foglio bianco, e tutto questo colore non so dove sistemarlo, come contenerlo, attraverso quali sfumature trasmetterlo. È come tentare di riassumere un lungo viaggio ancora in corso, denso di territori esplorati e ancora da esplorare. Voglio tentare almeno di non snaturare il senso di questo viaggio e utilizzare lo stesso linguaggio che lo ha caratterizzato e lo sta caratterizzando, quello del dialogo tra persone accomunate dalla stessa passione, nelle sue diverse declinazioni.

Un dialogo, non un’intervista Fabrizio. Se sei d’accordo ci proviamo.

Ma certo che sono d’accordo! Ho sempre preferito i dialoghi alle interviste, da buon amante della conversazione quale sono.

Di fronte alla tua variegata esperienza è difficile trovare l’incipit da cui partire, per cui inizierò dal motivo che ci ha messi in comunicazione per la prima volta, la mia curiosità verso il mondo del doppiaggio. Mi piace vedere i film in lingua originale, per sentire le voci vere degli attori, e tempo fa mi è capitato di rivedere un vecchio film di Eddy Murphy e di provare un immenso stupore quando mi sono accorta che la risata che lo ha reso così famoso in Italia non fosse la sua, ma fosse stata doppiata insieme ai dialoghi. La risata del piedipiatti di Beverly Hills non era di Murphy ma del suo straordinario doppiatore, Tonino Accolla. Alcune volte ho l’impressione che il doppiaggio crei una snaturalizzazione della recitazione originale, sovrastandola o al contrario non essendo alla sua altezza, ma in questo caso Accolla ha valorizzato, secondo me, il personaggio, addirittura lo ha caratterizzato attraverso una risata distintiva e inconfondibile. Cosa ne pensi di questa mia percezione? Il doppiaggio può fare tutte e due queste cose?

Tonino Accolla è stato uno dei miei maestri e lo ricordo con gratitudine e affetto.

Sono d’accordo con te, la risata che ha donato ai personaggi di Eddy Murphy è davvero unica. A tale proposito… lo sai che Murphy, dopo aver sentito l’edizione italiana di un suo film, chiamò al telefono Accolla per complimentarsi? Evidentemente doveva aver pensato che la risata di Tonino fosse molto più divertente di quanto non fosse in realtà la sua!

Tornando al doppiaggio, la risposta è sì: per fortuna e purtroppo, ha il potere sia di migliorare che di peggiorare un film, tutto dipende dalla natura delle forze in gioco.

Per quanto riguarda la snaturalizzazione dovuta a doppiatori che “non sono all’altezza” non mi pronuncio; per farlo dovrei addentrarmi in un campo minato in cui la meritocrazia soccombe alle regole del puro profitto e alle bieche leggi di un clientelismo più o meno scellerato.

Per quanto riguarda la snaturalizzazione dovuta ad un doppiaggio che sovrasta/schiaccia l’originale, si potrebbe forse dire che un tempo i doppiatori erano meno conosciuti, meno protagonisti, meno “divi” e quindi, in una certa misura, più umili di quanto non lo siano oggi. Questa, almeno, è la mia opinione.

Io ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere, se pur fugacemente, alcuni fra i più straordinari doppiatori dell’epoca d’oro, fra questi Sergio Fiorentini (Gene Hackman, Eli Wallach, Mel Brooks), Claudio Sorrentino (John Travolta, Mel Gibson, Bruce Willis) e soprattutto il mitico Cesare Barbetti (Robert Redford, Steve McQueen, Ray Liotta, William Hurt, e tanti altri). Parlando con loro, pur essendo veri e propri monumenti della storia del doppiaggio italiano, ho avuto la sensazione di stare di fronte a delle persone semplici, a degli “uomini comuni” dalla grande umiltà. Umiltà che si rispecchiava anche nel modo in cui doppiavano: sempre al servizio dell’attore a cui prestavano la voce, mai in concorrenza con lui.

Per capirlo basta ascoltare un qualunque doppiaggio di Giuseppe Rinaldi (Jack Lemmon, Paul Newman, Marlon Brando, Peter Sellers, Rock Hudson, ecc.); mai nella sua recitazione si avverte un tentativo di sovrastare il proprio attore, di dire: “Io sono più bravo di lui e ve lo faccio sentire”! Al contrario, nella straordinaria semplicità dei suoi doppiaggi, fatti di parole parlate (più che recitate), si avverte una certa qual forma di riverenza, di rispetto. Oggi le cose sono un po’ cambiate.

A tal proposito ricordo un aneddoto che riguarda proprio una direzione di Tonino Accolla.


Un giorno mi chiamano al telefono dalla Technicolor per un turno de “I Simpson – The Movie”; guardo l’agenda e scopro con terrore che non sono disponibile: solo una settimana prima mi ero lussato malamente un braccio (ero ancora tutto fasciato) e avevo una visita medica di controllo fissata proprio per quel giorno. “Che fare?”, mi sono chiesto, “Posso perdere l’occasione unica di recitare con un mito come Accolla, in un film mitico come “I Simpson” (il mio cartone cult)?“. “Assolutamente no!”, mi sono risposto, così decisi di rimandare la visita.

Mi presento al turno tutto eccitato e non appena arrivo, sento della gente borbottare in corridoio: “Hai saputo dell’altro giorno? Pare che Tonino abbia litigato da paura con “tal dei tali” (ometto il nome del doppiatore perché non è uno proprio sconosciuto) e che lo abbia mandato via dalla sala!”. Insomma, dopo una breve indagine vengo a scoprire che il tizio si era rifiutato di ripetere per l’ennesima volta una data battuta, affermando che così come l’aveva recitata andava più che bene e che non c’era nessun bisogno di rifarla!

“Ahi Ahi! Iniziamo bene!”, penso, e faccio per sedermi, quando proprio in quel momento esce Tonino dalla regia, mi vede e mi dice: “E tu chi sei”? Io rispondo: “Sono Odetto”, e lui: “Che hai detto?!”, e si mette a ridere. Poi vede il mio braccio fasciato e dice: “Non sarai per caso quello che ha rimandato la visita medica per venire a fare il turno?” Io rispondo: “Si signore, proprio quello”, e lui subito: “Allora vai dentro!”

Una volta in sala, sento la sua voce provenire dalla cassa che mi dice: “Ho deciso di affidarti un personaggio importante! Questo personaggio ha solo una battuta ma è la battuta che fa più ridere di tutto il film, perciò voglio che tu la faccia bene! La farai e la rifarai fino a quando non ti verrà come dico io. Se ne deve venire giù il cinema dalle risate, chiaro?!”. Memore della storiella appena appresa in corridoio, avverto subito un moto di tensione alla bocca dello stomaco ma poi, galvanizzato dalla meravigliosa prospettiva che mi si apre davanti, decido di rimboccarmi le maniche e di mettermici con tutto l’impegno…

Beh! L’ho dovuta rifare 37 volte! 37 volte, capisci? Alla fine ero sudato fradicio e completamente esausto ma Tonino aveva uno strano sorriso sulla faccia, pareva soddisfatto. Mi ha chiesto di raggiungerlo in regia e poi ha chiamato tutti gli attori che stavano al turno per farcela sentire. Dopo non ha detto nulla, semplicemente rideva, rideva di gusto e noi ridevamo con lui.

Non appena il film uscì nelle sale, io prenotai un posto e mi sedetti in prima fila, in trepidante attesa di quel fugace momento di gloria. Quando finalmente arrivò la mia battuta, il cinema scoppiò in un boato di risate e io capii, capii che Mr.Accolla aveva ragione!


Tonino era un genio. Fare bene con lui era semplice, bastava fare quello che ti diceva. È vero, a volte poteva sembrare una persona difficile, scontrosa, a tratti persino supponente se non lo si sapeva leggere fra le righe, ma nella sostanza era un uomo generoso; un vulcano dalla creatività inesauribile, sempre pronto ad insegnare qualcosa a chi dimostrava l’umiltà di volere imparare!

Hai doppiato delle serie e dei film di grande successo, “CSI New York”, “I borgia”, “Scandal”, “Hawaii Five-0 “, “I Simpson”, “Transformers”, “Django Unchained” di Quentin Tarantino, per citarne alcuni. Come sei arrivato a farlo e cosa ricordi di queste esperienze?

Ci tengo a precisare che, per quanto io abbia lavorato a livello professionistico per quasi vent’anni nel campo del doppiaggio, non ho mai doppiato attori famosi in film famosi, se non molto di rado. Spesso, però, mi è capitato di doppiare bravi attori che interpretavano bei ruoli ed è lì che comincia la vera sfida, perché a doppiare attori non bravi sono capaci tutti.

Come sono arrivato a fare doppiaggio? Per necessità, credo. La mia prima, vera passione era il teatro ma non dava molto da mangiare, e presto ho incominciato a capire che seguendo solo quella strada non sarei andato molto lontano. Allora decisi di fare un corso di doppiaggio. Mi resi subito conto che si trattava di un mestiere molto artigianale che presupponeva l’apprendimento di una tecnica alquanto raffinata: la recitazione al microfono (tecnica che io non conoscevo affatto).

Un mio amatissimo e simpaticissimo insegnante di Teatro, che tanto mi stimava sul palco e mi voleva bene, sentendomi doppiare per la prima volta mi disse con tono compiaciuto: “Quando una cosa ce l’hai nel sangue si vede subito, e tu, caro Fabrizio, non ce l’hai. Perciò lascia perdere il doppiaggio che non è roba per te!”. Io subito mi misi a ridere ma poi ovviamente ci rimasi male. Non volevo accettare l’idea di non essere in grado di fare una cosa, e così mi ci sono intignato. L’ho fatto per orgoglio! Anche perché ho sempre pensato che con impegno e dedizione si possa raggiungere qualunque obiettivo.

Insomma, ho insistito e insistito, finché non sono riuscito a dimostrare a me stesso che avevo ragione! Il lavoro è stato lungo, mi ci sono voluti anni di pratica e non è stato per nulla facile perché, come diceva quel mio insegnante, non era una cosa che mi veniva così spontanea (come calcare il palcoscenico). Ma alla fine ho vissuto tante belle avventure che mi hanno insegnato molto e ho raggiunto dei bei traguardi.

Cosa ricordo di tutte queste esperienze? Beh! Ricordo molte cose, di alcune ti ho già parlato, di altre ti parlerò a breve.


Qui posso raccontare un episodio curioso legato ad un doppiaggio che ho fatto con Carlo Cosolo, un grande direttore, attore e straordinario dialoghista (per intenderci, è quello che ha partorito la famosa battuta “che te lo dico a fare”; una delle mitiche espressioni che hanno reso celebre il film “Donnie Brasco”, con Johnny Depp e Al Pacino).

Cosolo mi aveva dato un piccolo personaggio nel film “Django Unchained” (di Tarantino), si trattava di un uomo di colore che aveva poche battute ma buone. Carlo è una persona molto rispettosa ed estremamente umile, lavorare con lui era sempre un piacere e quella volta fu molto divertente. La mattina seguente però mi arriva una telefonata urgente, era di nuovo lui che mi chiedeva se potevo raggiungerlo immediatamente in studio.

Tarantino aveva deciso all’ultimo che il film doveva chiudersi con una determinata scena, una veloce inquadratura che nel montaggio iniziale era stata tagliata, e in quella inquadratura c’era proprio il mio personaggio che diceva una sola, piccolissima battuta. La cosa assurda era che la scena in questione compariva solo alla fine dei titoli di coda (che in quel film sono interminabili), insomma, praticamente nessuno sarebbe mai rimasto in sala così tanto da riuscire a vederla, ma Tarantino era irremovibile e insisteva che voleva comunque inserirla!

Allora salto sullo scooter, corro in Technicolor, parcheggio, salgo al 3° piano e mi butto in sala, dove mi mettono su la scena al volo: un uomo di colore, chiuso in una gabbia, si volta verso un passante che lo spettatore non riesce a vedere e poi dice: “Chi era quel Negro?” THE END … Sono morto dal ridere!!!


So che sei particolarmente affezionato a un lavoro che hai svolto per il doppiaggio di una serie a cartoni che ha creato, alla prima visione, una vera dipendenza in me. La trovo geniale e trovo geniale l’autore che l’ha realizzata. Ma dato che vorrei dedicare a questa serie uno spazio tutto suo, e che l’autore si è dato disponibile a parlarne con me, preferisco non rivelare troppo al momento. Sono stata brava a farti e non farti la domanda?

Mmmm… non sono sicuro di aver capito a quale serie di cartoni tu ti stia riferendo… e poi chi sarà questo autore che si è dato così disponibile a parlarne con te? … Mmmm … Mi hai fatto proprio incuriosire, sai? Facciamo così: aspetto un suggerimento, solo un piccolo aiutino prima di rispondere. Sono stato bravo a darti e non darti la risposta?

La mia curiosità principale verso la tua professione di doppiatore è legata alla sensazione che doppiare sia una delle cose più difficili del mondo. Bisogna avere una perfetta dizione; sincronizzare le battute alla perfezione, in modo da ingannare l’occhio dello spettatore e fargli credere che quei movimenti delle labbra corrispondano proprio alle parole pronunciate; occorre recitare senza fare esperienza corporea di ciò che si sta interpretando e quindi sviluppare una capacità di immedesimazione staccata dal qui ed ora, dal supporto dell’interazione reale con gli altri attori. Le emozioni che l’attore esprime le esprime nel suo modo, i suoi gesti, espressioni, il suo linguaggio non verbale sono connessi a ciò che fa e ciò che dice, mentre il doppiatore deve provare emozioni espresse da altri, dare voce alle parole pronunciate da altri. Come si fa tutto questo?

Bella domanda! Proverò a rispondere ma tieni conto che quello che dirò corrisponde al mio personale punto di vista e non va assolutamente preso per una verità assoluta.

Prima di tutto si deve partire dalla considerazione che il doppiaggio è forse una delle arti più innaturali che esistano e che il risultato finale non sarà mai “la verità” ma nel migliore dei casi un ottimo compromesso.

Vi sono molteplici fattori che concorrono alla buona riuscita di un’edizione, primi fra tutti vi sono il lavoro di Traduzione e di Adattamento.

Partiamo dalla Traduzione: la prima difficoltà sussiste nel riportare/ridurre il linguaggio e il modo di esprimersi distintivo di una determinata cultura straniera (a volte molto diversa dalla nostra) senza snaturarlo. Prendiamo il cinema orientale, ad esempio: spesso si esprime utilizzando un linguaggio poetico e astratto, anche se apparentemente quotidiano. Se il traduttore non rispetterà l’anima profonda della sceneggiatura, mistificando più o meno volontariamente la poeticità astratta di quelle parole, facilmente il doppiatore si troverà in difficoltà nel recitarle, e alla fine il risultato per lo spettatore sarà estraniante.

In secondo luogo vi è l’Adattamento; la sceneggiatura appena tradotta dovrà essere sapientemente manipolata, in modo da far corrispondere il più possibile i labiali degli attori con quelli delle parole italiane che faremo pronunciare loro, per dare infine una illusione di verità.

Questo lavoro è alquanto difficile e assai frustrante: spesso ci si trova a dover rinunciare all’espressione più aderente, più rispettosa, più filologicamente corretta, a favore di una maggiore corrispondenza dei labiali. Bisogna poi considerare anche la censura (una delle principali cause di stravolgimento nelle edizioni italiane, specialmente per i prodotti televisivi). Nella mia carriera mi è capitato di adattare diversi prodotti che dovevano andare in onda su determinati canali, canali che hanno delle regole molto precise circa l’utilizzo di determinate espressioni idiomatiche (le parolacce in primis). Un esempio? Dovevo adattare una serie animata che aveva come protagonista un giovane teppistello scapestrato che si esprimeva in modo “colorito”, il problema era sostanzialmente uno: non potevo assolutamente usare un linguaggio “colorito”!

In una scena, parlando con i suoi amichetti di quartiere, il ragazzo diceva: “Cavolo! Ci hanno fregato”! … Bene! Io non potevo dire né “cavolo”, né “fregato” e sapete perché? Perché “cavolo” è sinonimo di “cazzo” (si può dire “cazzo” in questa intervista? O mi censurate?), e “fregato” di “fregarsi/toccarsi”, e sebbene in originale il ragazzotto si esprimesse proprio così (veniva dalla periferia, e il suo linguaggio costituiva un suo tratto distintivo), io semplicemente non potevo! Evidentemente la cultura straniera che aveva creato il personaggio era decisamente più aperta (in materia sessuale e non solo) sia della nostra che di quella del canale che imponeva la censura… Fatto sta che alla fine ho dovuto adattare così: “Accidenti, ci hanno preso in giro!” … Ho reso l’idea?

Come si può ben vedere, non abbiamo ancora iniziato a doppiare il nostro prodotto e già abbiamo forti probabilità di rovinarlo (se non ci applichiamo con filologica predisposizione).

A questo punto entriamo in sala per considerare altri due aspetti fondamentali: la direzione del doppiaggio e la recitazione.

Il direttore ha una grande responsabilità: deve interpretare il messaggio del film e lo stile con cui esso viene espresso per dare una linea interpretativa agli attori (in questo senso è a tutti gli effetti un regista); le scelte che compierà, saranno fondamentali per determinare la buona o la cattiva riuscita dell’edizione.

Un esempio di ottima regia è a mio avviso quella fatta da Rodolfo Bianchi sul film “La haine” (l’Odio), adattamento e dialoghi di Giuseppe Manfredi.

Bianchi decise di dare ai doppiatori una forte libertà espressiva, permettendo loro di parlare in un modo più “vero”, liberandoli cioè dai canoni della dizione “pulita”, e spingendoli verso una recitazione meno convenzionale, molto più simile a quella della “presa diretta” che a quella del doppiaggio. Infatti se, da una parte, si nota il fiorire occasionale di qualche inflessione “autoctona”, decisamente non parigina e certamente estraniante, dall’altra la recitazione sembra assolutamente reale e molto più aderente a quella originale. A trionfare, alla fine, non sono certo le “voci” dei doppiatori ma il drammatico agire degli interpreti in carne ed ossa. Per uno come me (più attore che doppiatore) si tratta di una scelta assolutamente vincente!

Passiamo infine ad analizzare ciò che mi riguarda più da vicino, e cioè la recitazione.

Il copione del film, per una questione logistica, viene precedentemente suddiviso in scene, denominate “anelli”. Questo temine risale alle origini del doppiaggio: allora le scene erano stampate su una breve porzione di pellicola richiusa su se stessa (come un anello appunto) e montata su un proiettore; quando la scena finiva ricominciava da capo. Agli albori questi anelli venivano proiettati più e più volte, in modo che il doppiatore potesse vedere bene la scena, nel dettaglio, fino a memorizzare anche la più piccola sfumatura recitativa dell’attore che doveva doppiare. Dopodiché, si faceva una prova sonora (con audio in cassa), poi una prova muta (con audio in cuffia) e solo allora si procedeva all’incisione vera e propria.

La prima cosa da fare per ottenere un doppiaggio di qualità è quindi vedere bene la scena, e soprattutto non parlare (per nessun motivo) mentre la si vede per la prima volta; dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull’attore che ci sta di fronte e su come recita, NON su noi stessi! È un po’ come quando ci si presenta a qualcuno per la prima volta: se ci fate caso, siamo molto più concentrati sul modo in cui diciamo il nostro nome (“Piacere, Fabrizio”) che sulla risposta immediatamente successiva, motivo per cui, non appena abbiamo finito di presentarci, non ci ricordiamo il nome dell’altro (anche se ce l’ha appena detto). Questo accade perché parliamo, al posto di ascoltare.

La seconda cosa da fare, assai più complessa della prima, è quella di metterci nella condizione di essere spontanei. Come hai giustamente detto tu, Laura, l’attore di un film, dopo una lunga preparazione che lo ha motivato e ispirato, e nonostante abbia studiato un copione a memoria, recita sempre e comunque il “Qui ed Ora”; in quel preciso momento egli sta davvero vivendo quelle emozioni, e le prova per “la prima volta”.

Ebbene, per il doppiatore è la stessa cosa: anche per lui è la prima volta che vive quelle emozioni, che dice quelle parole (anche se lo fa per interposta persona).

Ma questo miracolo accade appunto la prima volta, o al massimo la seconda. A mano a mano che ripeterà la scena, la sua recitazione diventerà via via più falsa, più tecnica e sempre meno spontanea! L’ideale insomma sarebbe fare “BUONA LA PRIMA”!

Questo è il motivo per cui è così importante non bruciare la freschezza della nostra interpretazione mentre si vede per la prima volta la scena (quando non abbiamo neanche ancora capito di cosa si tratta). E questo è il motivo per cui i direttori più scaltri ed esperti spesso incidono “a tradimento” la prima prova (muta), che è sempre la migliore dal punto di vista interpretativo. In sostanza ingannano il doppiatore, facendogli credere che è solo una prova e che non stanno registrando, così da farlo recitare in modo più spontaneo e naturale. Ciò accade spesso quando si ha a che fare con scene particolarmente difficili, ad elevato coinvolgimento emotivo.

A tale proposito mi sento di raccontare un altro aneddoto:


Stavo facendo un turno di C.S.I. New York e dovevo doppiare Adam Ross (il mio personaggio fisso), un tecnico di laboratorio simpatico e un po’ sopra le righe. In direzione c’era il grande Roberto Chevalier! Ad un tratto mi mettono su una scena molto drammatica; sino a quel momento Adam aveva per lo più mostrato il suo lato comico e sbarazzino (in fondo il suo ruolo nella serie era quello di alleggerire e sdrammatizzare), ma ora, improvvisamente, si manifestava un aspetto nascosto della sua vita: un trauma dovuto alla perdita del padre che emergeva durante l’interrogatorio di un ragazzino che aveva subito la stessa perdita.

Roberto mi fece vedere la scena più e più volte, chiedendomi (come sempre) di non parlarci sopra, poi, visto che mi conosceva bene perché mi aveva visto in teatro in una pièce molto drammatica, chiese all’assistente (la persona che siede in sala per controllare la sincronia del labiale) di uscire e di raggiungerlo in regia (cosa decisamente inusuale).

Insomma, di colpo mi sono ritrovato solo, al buio. In quei pochi istanti di silenzio mi sono reso conto che Roberto mi stava facendo un dono meraviglioso; era come in teatro, quando sale il sipario e la vita inizia a scorrere inesorabile, senza potersi arrestare. Di fronte avevo solo lui, Adam, che si preparava ad iniziare un lungo e commovente monologo!

Col cuore a mille inizio a doppiare come spinto da una forza invisibile, sento il suo respiro, cammino accanto a lui senza mai prevaricare le sue emozioni, senza cercare di stupire o meravigliare, ad un tratto mi si rompe la voce, mi si rompe a metà, proprio quando sento la sua spezzarsi, mi faccio guidare con umiltà nel suo dolore (in empatia con lui), e alla fine mi scende una lacrima, una lacrima vera… vera come la sua.


Devo essere sincero: non è stata tutta buona la prima, qualcosa abbiamo dovuto rifare; brevi periodi, qua e là, ma la parte emotiva (per quanto non assolutamente perfetta di labiale) è rimasta così com’era! Un dono ancora più prezioso se fatto da un noto maniaco della perfezione quale Roberto è sempre stato!

L’ho ringraziato allora, lo ringrazio oggi e lo ringrazierò sempre per la magnifica opportunità che mi ha dato; quella è stata senza dubbio l’esperienza di doppiaggio più bella che mi sia mai capitata!

Mi piace pensare che la voce di un doppiatore sia un po’ come un vino, cioè possa essere descritta attraverso delle caratteristiche distintive. La tua voce l’hanno sentita molte persone, ma puoi raccontarcela?

È difficile descrivere una voce, specialmente una voce non convenzionale come la mia. Anni fa, ebbi un problema alle corde vocali (dei piccoli polipi); in quell’occasione dovetti andare da uno specialista che visitandomi mi disse: “Hai delle corde vocali molto elastiche, e un’elevata estensione vocale che ti permette di modulare la voce dai toni più acuti a quelli più gravi. Se avessi voluto, avresti potuto fare il cantante lirico”.


Nel corso della mia carriera di doppiatore e speaker pubblicitario mi è capitato spesso di ricoprire ruoli molto diversi, a volte addirittura opposti. Per farti un esempio, in una serie animata francese (“Sam Sam – Il Cosmoeroe”), mi è capitato di doppiare ben due personaggi: uno buono (con voce calda da eroe) e l’altro cattivo (con voce stridula e isterica). Pensa che in molte puntate i due parlavano insieme, combattevano addirittura uno contro l’altro. A quanto mi risulta nessuno si è mai accorto della cosa!


Dovessi descrivere la mia voce, direi che è calda e roca, cruda, grattata, consumata, malinconica, verace, umile, semplice, non raffinata… Insomma, una voce del popolo! Diciamo che se fosse un vino sarebbe un Barbera o un Vin Brulé.

Fabrizio-Odetto

Hai due anime, che si integrano benissimo. Vediamo la seconda. Sei un attore di teatro e hai fatto diverse esperienze di Fiction. Da cinefila, ho notato che spesso i più grandi attori cinematografici provengono dal teatro, anche se attualmente succede spesso la cosa inversa, e cioè che attori di cinema e serie tv approdino all’esperienza teatrale. Cinema e teatro sono due realtà simili ma diverse. Ad esempio, a teatro avviene tutto “in diretta”, non ci sono seconde chance per una scena e il contatto con il pubblico non è mediato da uno schermo. Quali sono le differenze tra recitare di fronte a una telecamera o a una platea? Mi riferisco sia agli aspetti tecnico-pratici che a quelli emotivi e psicologici (soprattutto).

Dal punto di vista psicologico le differenze sono enormi!

In teatro, subito prima che salga il sipario, gli attori stanno dietro le quinte, sospesi in un attimo di quiete prima della tempesta. La sala piano piano si riempie di gente che si muove avanti e indietro alla ricerca di un posto, rumoreggiando e cianciando allegramente. Difficile resistere alla tentazione di sbirciare in platea da uno strappo della tenda o da una fessura. Ogni volta sembra di ritornare al giorno dell’esame orale di maturità, quando siedi nel corridoio fuori dall’aula, con il cuore che batte a mille, aspettando che qualcuno chiami il tuo nome. È una sensazione pazzesca!


Quando si alza il sipario inizia la battaglia: gli attori, come soldati nascosti dietro ad una trincea in attesa dell’ordine di attacco, si buttano alla carica (o meglio, alla ribalta), guidati da una forza che sta al di sopra di loro. Una volta in scena, con le luci calde sulla faccia, inizi a parlare e come per magia si innesca una reazione a catena che non può più essere arrestata; una giostra di emozioni condivise fra attori e pubblico che ha qualcosa di magico!


La benzina che fa muovere tutto il meccanismo, naturalmente, è il pubblico stesso; il materiale umano che siede in platea: vero, reale, presente!

La cosa atroce è che se dimentichi una battuta, se reciti con poca energia, o con troppa foga, se insomma qualcosa non va, gli spettatori reagiscono immediatamente (come una cartina tornasole). Il pubblico in pratica si comporta come uno specchio energetico: se trasmetti una cattiva energia, questa ti torna subito indietro e ti annienta; viceversa, se riesci ad esprimere un’emozione potente, essa si moltiplica passando da uno spettatore all’altro, da un’anima all’altra, fino a straripare, investendoti come un’onda di piena e rendendoti onnipotente! A volte può anche capitare di essere carichi ma di trovare un pubblico poco reattivo, o semplicemente annoiato. In quei casi è un vero strazio; tocca tenere duro e lavorare con il doppio dell’impegno!

Che sia un trionfo o una disfatta, alla fine, quando cala il sipario, la sensazione che si prova è quella non solo di aver “vissuto” un’esperienza, ma soprattutto di averla “condivisa” con altri esseri umani. Non sto parlando solo del pubblico ma anche degli altri attori in scena, dei tecnici dietro le quinte, dei macchinisti, persino delle maschere. Tutti lì, in quel dato luogo, in quel dato giorno, in quel dato momento della propria vita, per condividere un evento unico ed irripetibile!

È un’emozione che non ha prezzo!

In video, invece, l’emozione che si prova è molto più intima, personale, introspettiva; il dramma emotivo si consuma nel rapporto interiore fra l’attore e il personaggio che interpreta, fra la sua interiorità umana e quella degli altri attori/personaggi con cui ha a che fare. Ma il pubblico non partecipa in modo attivo, spia semplicemente (non visto) quello che Paolo Conte definirebbe uno “spettacolo d’arte varia”; il pubblico in pratica non esiste, come non esiste la telecamera (non deve esistere), altrimenti si svela il trucco e tutto diventa falso. Psicologicamente la differenza è abissale!

Fabrizio Odetto

Per quanto riguarda la tecnica occorre distinguere fra tecnica attoriale e tecnica vocale.

Dal punto di vista della tecnica attoriale non ravviso grandi differenze: in entrambi i casi l’attore deve fare un lavoro su se stesso e sul personaggio, in modo da riuscire ad esprimere dei sentimenti che sembrino reali. Premetto che per sentimenti “reali” non intendo “realistici” o “naturalistici” (il naturalismo non è sempre richiesto, e ad ogni modo non è sempre indice di verità), per “reali” intendo “autentici”; in qualunque modo si reciti, sia che si tratti di una Fiction per il grande pubblico o di una commedia dell’assurdo, di un film neorealista o di un dramma astratto o simbolista, dobbiamo far credere che ciò che facciamo (o meglio ciò che proviamo) sia per noi “reale-vero-sincero-autentico”. Solo così, attraverso il meccanismo dell’empatia, potremo emozionare il pubblico (se non ci crediamo noi, non ci crederanno neanche loro!).

Nell’antichità il teatro veniva declamato in maniera esteriore, in parte a causa dei grandi spazi in cui veniva praticato (anfiteatri, arene), luoghi in cui l’acustica non permetteva una recitazione intima, e in parte a causa della sua valenza educativa, fortemente simbolica. Dall’800, con l’avvento della Psicoanalisi (Freud, Jung) e con la nascita dello psicodramma e di nuovi metodi recitativi (Stanislavskij, Grotowski), tutto viene stravolto e la recitazione si proietta dall’esterno verso l’interno. In questo senso, uno spartiacque potrebbe essere considerata la prima de “Il giardino dei ciliegi” di A. Checov (1904): si dice che quella sera gli attori recitarono in modo così vero da far risultare l’intero dramma assolutamente reale, forse troppo reale per il gusto dell’epoca; pare infatti che il pubblico (abituato ad una recitazione più declamata) lasciò la sala prima della fine dello spettacolo, annoiato e infastidito.

La prima di Checov fu un insuccesso clamoroso ma gettò le basi per quella che sarebbe diventata la recitazione moderna.

Dal punto di vista della tecnica vocale, invece, esiste un abisso fra le due discipline: in teatro la voce deve arrivare in ultima fila, perciò l’attore deve riuscire ad esprimersi in modo intellegibile senza per questo snaturare la verità delle parole e dei sentimenti che esprime (in poche parole deve imparare a sussurrare ad alta voce).

In video è tutto molto più facile: ci sono i microfoni a supporto e l’attore può parlare come gli pare, senza preoccuparsi di essere o non essere sentito/capito. Questo entro certi limiti, naturalmente!

L’attore di cinema e teatro Giuseppe Battiston ha arditamente fatto notare che al giorno d’oggi nella recitazione a video si abusa un po’ troppo di questa “facilitazione”, tanto da arrivare al punto in cui, spesso e volentieri, il pubblico non riesce a capire le parole “bofonchiate” dagli attori.

Beh! Io sono pienamente d’accordo con lui! A mio avviso si tratta di un problema da non sottovalutare; di una malattia contagiosa che andrebbe “curata” immediatamente, prima che si trasformi in una vera e propria epidemia!

È vero che si sta assistendo ad un progressivo ritorno del neorealismo, del cinema verità, e che la recitazione si fa sempre più quotidiana (quasi da reality). Però un conto è parlare in modo spontaneo/naturale (“come nella vita”) e un conto è biascicare vocaboli inintellegibili.

Odetto Fabrizio

Un’ultima, grande differenza che vorrei affrontare riguarda la “Presenza Scenica”. 


In entrambe le discipline l’attore deve possedere una grande potenza espressiva. Ora, mentre in video questa si traduce in una sorta di fotogenia, nella capacità di trasmettere grandi emozioni attraverso piccole sfumature (davanti alla telecamera anche il più insignificante particolare può diventare enorme), in teatro tale potenza è più che altro riconducibile al possesso di una particolare aura energetica.

Non sempre un attore che possiede una, possiede necessariamente anche l’altra; è possibile cioè che un attore abbia un primo piano ultra espressivo ma che su un palco, nella sua totalità (a figura intera), risulti piccolo, insignificante. Viceversa, un attore capace di riempire con la sua sola presenza il boccascena di un teatro, in video potrebbe risultare eccessivo, falso.


Alcuni attori, particolarmente talentuosi, hanno la fortuna di possedere entrambi i doni ma è un’eventualità piuttosto rara e assolutamente non comune. Quando si verificano migrazioni indiscriminate fra set e palco, fra palco e set (al giorno d’oggi, ahimè, sempre più frequenti), sia il Cinema che il Teatro hanno davvero molto da perdere!

Grazie Fabrizio per il tuo prezioso contributo, per i tuoi interessanti aneddoti e per la passione che hai trasmesso.

Anche io ti ringrazio infinitamente per la magnifica opportunità che mi hai dato: in questo interessante esperimento di corrispondenza creativa sono riaffiorati tanti bei ricordi, tante belle esperienze vissute e rimaste sepolte nella mia memoria, forse per troppo tempo.

Grazie ancora a te e a tutti coloro che avranno l’ardire di leggerci. Alla prossima…


Fabrizio Odetto Intervista

Qui di seguito potete trovare una carrellata parziale delle esperienze di Fabrizio Odetto. Ora capirete perché ero un po’ smarrita sulla direzione da dare a questo dialogo. Sentirete ancora parlare di Fabrizio, perché la nostra collaborazione professionale non finisce qui (abbiamo ancora dei progetti da realizzare insieme), e perché dovrò dargli, alla fine, uno spazio per raccontare ciò che oggi, con grande cattiveria, non gli ho lasciato esprimere. Le frustrazioni sono materiale importante per la crescita dell’attore, lo faccio per lui.


RECITAZIONE – FICTION

 “Non Uccidere 2” – Episodi 19 e 20 (2017), Fiction Rai 2 – Regia: Michele Alaique, Emanuela Rossi.

“Sacrificio d’Amore” (2016) – Regia: Fabrizio Portalupi.

“Il Terzo Indizio”II Puntata / Caso Chiara Insidioso (2016), Docufiction di Rete 4 di Barbara De Rossi – Regia: Fabrizio Portalupi, Mattia Puleo.

“Piloti” (2007) con Enrico Bertolino e Max Tortora.

RECITAZIONE – FILM TV

“Tra due donne” (2001) – Regia: Alberto Ferrari – con Gianmarco Piacentini, Alessandra Casella, Francesca Giovannetti.

“La medaglia” (1997), con Franco Nero – Regia: Sergio Rossi.

RECITAZIONE – LUNGOMETRAGGI

“Censurado – Inno all’amore” (2014) – Regia: Mauro Russo – con Giorgio Perno, Valeria Romanelli e Francesca Antonucci.

RECITAZIONE – TEATRO

“La Commedia di Orlando” tratto da Orlando di V. Woolf (Tournée 2011-2012) – Regia e drammaturgia: Emanuela Giordano – con Isabella Ragonese e Erika Blanc.

“Intrappolati nella Commedia” (2011) di e con Lillo & Greg.

“Via Tarquinia, 20 – Biografie di un sogno” (2007) – Regia: Emanuela Giordano – con attori e detenuti della Casa di Reclusione di Civitavecchia. Il testo, inserito nel progetto di Drammaturgia penitenziaria sostenuto dal Ministero della Giustizia, ha vinto il “Premio Annalisa Scafi” per gli autori di teatro civile ‘06.

“Alice delle meraviglie” (2006) – Regia: Emanuela Giordano – con Mascia Musi.

“Don Giovanni” di Eduardo Fiorito (2005). Nel 2006 il testo ha ricevuto il “Premio Calcante” dalla Società Italiana Autori Drammatici presieduta da Mario Verdone e Maricla Boggio.

“Le miserie del signor Travetti” di Vittorio Bersezio (2003) – Regia: Oliviero Corbetta – con Mario Brusa, Mario Zucca, Adolfo Fenoglio.

“Orestea” di Eschilo (2000) – Regia: Livio Galassi – con Mita Medici e Antonella Elia

“Mostellaria” di T. M. Plauto (2000) – Regia: Nicasio Anzelmo – con Carlo Croccolo e Daniela Cenciotti.

“Gesù” liberamente tratto da Carl Theodor Drayer (2000), di e con: Franco Branciaroli

“Cos’è l’amore – liberamente tratto dall’Antigone di Sofocle (1999), di e con: Franco Branciaroli

“Il Padre” di August Strindberg (1998) – Regia: Salvo Bitonti – con Mita Medici e Luigi Pistillo.

“Arsenico e vecchi merletti” di J. Kesserling (1998) – Regia: Giancarlo Zanetti – con Adriana Innocenti e Piero Nuti.

“Oreste” di Vittorio Alfieri (1997) – Regia: Adriana Innocenti – con Adriana Innocenti e Piero Nuti

“Anfitrione” di T. M. Plauto (1996) – Regia: Adriana Innocenti – con Adriana Innocenti e Piero Nuti

DOPPIAGGIO – FILM CINEMA

“Django Unchained”

“Transformers”

“I Simpson – The Movie”

“Madagascar 2”

“Il vento che accarezza l’erba”

“Una notte da leoni”

“Notte brava a Las Vegas”

DOPPIAGGIO – FILM TV

“American Heart”, “House Party – Tonight’s the Night”, “The Reef”, “Slam”, “Extrema”, “Spun”, “Van Helsing – Dracula’s Revenge”, “Vado, Vedo… Vengo! – Un viaggio tutto curve”

DOPPIAGGIO – SERIE TV

“C.S.I. New York”

“I Borgia”

“Game of Thrones”

“La Bibbia”

“Nip’n Tuck”

“Scandal”

“Hard”

“Hawaii Five-0”

“Tremors”

“Binny e il fantasma”

DOPPIAGGIO – TELENOVELAS

“Tempesta d’Amore”, “Terra Nostra 2 – La Speranza”, “Somos Famiglia”, “Pasion Morena”, “Vivir a Destiempo”, “Batticuore”, “Amar para Siempre”.

DOPPIAGGIO – ANIMAZIONI

“The Simpson – La Serie”

“Sam Sam – Il Cosmoeroe”

“Brickleberry”

“Sorriso d’Argento”

“Noein”

“Beck – Mongolian Chop Squad”

“Preti”

“Polchinski”

“Homo Homini Bisonte”

SPEAKERAGGI – SPOT RADIO NAZIONALI

Apple iPhone 6S, Apple i Pad Pro, Yogurt Milk, Lenor, Opel, Helsana Assicurazioni.

ANIMATIC

Yahoo, San Paolo, ING Direct, Kinder & Ferrero

RECITAZIONE – PUBBLICITÁ

Spot Mc Donald’s (Mc&Go)


Laura Salvai

Sono psicologa, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale, sessuologa clinica e terapeuta EMDR. Amo le storie e mi piace scriverle, leggerle, ascoltarle e raccontarle. Sono la fondatrice del gruppo Facebook "PSYCHOFILM" e la proprietaria di questo sito. Il cinema è per me una grande passione da sempre, diventata con il tempo anche uno dei miei principali impegni professionali.