Stare into the lights my pretties
“Stare into the lights my pretties” è disponile, sottotitolato in più lingue, per intero su Youtube. Lo trovate in fondo a questa pagina.
Di cosa tratta? In una parola, di screen culture, ovvero delle ripercussioni dell’uso di device tecnologici sulla nostra vita e sul nostro modo di pensare/vivere.
Il documentario si apre con una serie di riflessioni sulla pervasività dell’utilizzo di schermi, arrivata a un culmine nel giro di pochissimi anni.
Il contenuto si articola in tre momenti e intorno a tre domande:
- Il modo di pensare è modellato dall’uso continuativo di internet?
- Cosa succede quando siamo sommersi da informazioni massive?
- Quanto siamo dipendenti dal device?
Il modo di pensare è modellato dall’uso continuativo di internet?
La risposta è: a quanto pare, sì. Vengono interpellati una serie di neuroscienziati ed esperti di settore che parlano di un viraggio a un pensiero cosiddetto “bidimensionale”, cioè non profondo, adattato e in qualche modo modellato sul “modo di navigare” in rete, cioè orizzontale, da una pagina all’altra, da un ipertesto all’altro.
Viene assolutamente demonizzato il multitasking, colpevole di un degradamento attenzionale che è sotto gli occhi di tutti ma non ancora effettivamente portato alla luce in senso clinico. Sembra cioè che divenga sempre più difficile calarsi in profondità in un’esperienza immersiva come la lettura.
Viene giustamente sottolineato che tuttavia quella che un tempo veniva chiamata intelligenza fluida, sembrerebbe essersi sviluppata in positivo, con migliori punteggi medi in termini di QI.
Sembra essere invece a rischio l’intelligenza laterale e la capacità di comprensione profonda/capacità di riflessione. Si traccia un confine netto tra il concetto di INFORMAZIONE e quello di CONOSCENZA.
Cosa succede quando siamo sommersi da informazioni massive?
Nella seconda parte del documentario viene esplorato il già noto concetto di echo chamber o filtro informativo, cosa che come sappiamo ci porta -per via di un feed di informazioni su internet ritagliato su misura per noi a fini commerciali- a un autismo conoscitivo a causa del quale diventiamo massimamente convinti ed esperti di un solo modo di vedere le cose: il nostro, con tutto quello che questo comporta (xenofobia, radicalizzazione, polarizzazione, ecc.).
Per chi fosse interessato a questo aspetto Mark Zuckerberg e Yuval Noah Harari ne parlano a fondo in quest’intervista.
Quanto siamo dipendenti dal device?
Tanto. Ma tanto tanto. Viene fatto un paragone appropriato tra lo smartphone e una slot machine portatile: ogni singolo ritorno al device rappresenta un abbassare la leva della slot sperando in un triplo 777 (nel nostro caso: notifiche multiple, mail, etc.). Sappiamo che c’è di mezzo la dopamina e la questione del meccanismo di reward.
Interessante il riferimento fatto a Skinner e Pavlov e ai loro esperimenti sul condizionamento operante e classico, usato come esempio esplicativo per spiegare come gli schermi riescano a tenerci così incollati.
Skinner aveva capito che non è tanto la paura di un’ipotetica ripercussione dolorosa a far sì che il topolino bianco schiacci la leva, né il piacere che freudianamente sentirebbe nel farlo, ma il premio finale, il reward.
Il reward (notifica, mail, messaggio) sembrerebbe aver trasformato la realtà in una sorta di videogioco, come sostiene Baricco nel suo The Game (titolo appropriato), a colpi di gettone/moneta/notifica/like, prospettando uno scenario prossimo-futuro blackmirroresco non proprio bello da immaginare.