Martyrs e Ghostland: l’evoluzione dell’horror di Pascal Laugier
[Attenzione: spoiler]
Sono passati dieci anni tra “Martyrs” (2008) e “La casa delle bambole – Ghostland” (2018), eppure questi due capolavori dell’horror, se fossero dei racconti, potrebbero essere contenuti in uno stesso libro.
Scritti e diretti da Pascal Laugier, regista e sceneggiatore francese di grande talento, rappresentano un upgrade del cinema horror psicologico dal grande valore artistico per gli amanti del genere.
Guardare molti film dell’orrore produce nel tempo una tolleranza, che rende difficile provare quelle emozioni forti delle prime volte. Ciò porta alla ricerca di visioni sempre più estreme da parte del pubblico, che il mercato tenta di soddisfare, senza riuscirci sempre. Laugier ci riesce, e lo fa in un modo davvero unico.
I suoi film non possono essere categorizzati in un sottogenere horror classico specifico (es. slasher, gore, cannibal, ecc.), ma se proprio vogliamo cercare una parola chiave per descriverli, potremmo catalogarli tra i film “disturbanti”.
“Martyrs” e “Incident in a Ghostland”, pur contenendo alcune scene raccapriccianti e qualche raro jumpscare, sono principalmente dei film horror psicologici, che non creano disturbo solo durante la visione, ma rimangono a lungo nella mente dello spettatore.
Vedere un film di Laugier non è come fare un giro sulle montagne russe; non si finisce di sentire il senso di angoscia quando si esce dalla sala, anzi, talvolta il disturbo aumenta nel momento in cui si riflette su ciò che si è visto.
“Martyrs” è indicato dagli amanti del genere horror (benché ormai assuefatti dalle autosomministrazioni ripetute di immagini ad alto impatto emotivo) come uno dei film più disturbanti di tutti i tempi e questo ci dice molto sulla capacità di Pascal Laugier di raggiungere lo scopo di perturbare i nostri sistemi.
Ma veniamo al punto: cosa accomuna questi due lavori, temporalmente divisi da un decennio di cinema?
L’Horreur du domicile
Entrambi i film si svolgono principalmente in ambienti chiusi, da cui non si può fuggire ma si vorrebbe fuggire. Un classico di molti film, dell’orrore e non, il tema del voler andare via da un luogo per difendersi da una minaccia alla sopravvivenza fisica e psicologica, o per emanciparsi, viaggiare, esplorare, trovare la propria strada. Ma in “Martyrs” e “Incident in a Ghostland” Pascal Laugier suggerisce un doppio “Horreur du domicile”…
Da una parte c’è la casa in cui i corpi delle protagoniste abitano o sono rinchiuse, e dall’altra ci sono i loro corpi, come case che loro stesse abitano. Il bisogno di fuga è duplice: andare via con il corpo da un ambiente in cui si è prigionieri e fuggire con la mente dal proprio corpo, martoriato e torturato.
Dal terrore, all’orrore, alla dissociazione
Il terrore e l’orrore sono due emozioni molto diverse ma strettamente accomunate nell’empatia.
Nel terrore siamo protagonisti, reagiamo a una minaccia alla nostra incolumità o a una azione che danneggia il nostro corpo o sconvolge la nostra mente. Nell’orrore siamo spettatori di qualcosa che accade ad altri, ad esempio quando assistiamo ad un’aggressione, ad un omicidio, a un abuso, a una tortura, a un’ingiustizia, da una posizione di sicurezza personale, come quella che abbiamo quando ci troviamo al di là di uno schermo.
Provare orrore è empatizzare con il terrore e la sofferenza di qualcuno, senza essere direttamente coinvolti nella situazione di rischio.
Laugier effettua con questi due lavori un ulteriore salto, ed è questa l’evoluzione del suo cinema a cui mi riferisco nel titolo di questo articolo.
In “Martyrs” Mademoiselle, la leader dell’organizzazione che rapisce e tortura giovani ragazze, afferma che lo scopo della sadica operazione è quello di trovare delle donne che non reagiscano alle sevizie come semplici vittime, ma che siano capaci di assurgere a un livello superiore, come i martiri cristiani del passato, di raggiungere attraverso il dolore uno stato di estasi e mettersi in comunicazione con l’Aldilà, diventando testimoni di ciò che c’è dopo la morte. Le prove del raggiungimento di questa profonda trance estatica sarebbero lo sguardo fisso, come se fosse proiettato in un’altra dimensione, e l’immobilità del corpo, che mostrerebbe l’assenza di dolore e il distacco dal corpo in favore dello spirito.
Quella che Mademoiselle chiama estasi, non è altro che una chiara manifestazione di dissociazione:
“Chiunque si occupi di persone traumatizzate, che siano esse uomini, donne o bambini , si confronta prima o poi con sguardi fissi nel vuoto e menti assenti, la manifestazione esteriore della reazione di congelamento biologico. La depersonalizzazione è un sintomo della dissociazione massiva provocata dal trauma” (Bessel Van Der Kolk – “Il corpo accusa il colpo”)
In “Ghostland” la protagonista si rifugia in un mondo immaginario, dissociandosi totalmente dalla realtà terribile in cui è immersa. Anche qui ritroviamo il tema della dissociazione e anche qui, come in “Martyrs”, vediamo una ragazza che non potendo fuggire dal luogo in cui è tenuta prigioniera, non potendo combattere i suoi aguzzini, non potendo chiedere aiuto o essere salvata, “fugge” dal suo corpo, che è la sua casa nella casa (ecco “L’horreur du domicile” di prima).
La dissociazione va oltre il terrore e l’orrore, è uno step superiore; Laugier rompe così la connessione tra spettatore e attore, e sostituisce alla paura il distacco. Come la mente delle protagoniste esce dal loro corpo, il pubblico esce dallo schermo e torna al presente.
In “Martyrs” la dissociazione coincide con il finale del film, mentre in “Ghostland” c’è un continuo oscillare dentro e fuori dal corpo, con allontanamenti e ritorni alla realtà.
Laugier va oltre, laddove i neuroni specchio si smarriscono e l’orrore, come correlato empatico del terrore, svanisce per un momento, per poi lasciare spazio al disturbo sordo.