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“Il Signor Diavolo”: dialogo con Pupi Avati sul suo ritorno al cinema horror

Sono passati due anni dal mio primo incontro con il maestro Pupi Avati. Un incontro che mi ha permesso di conoscerlo come persona, con una chiacchierata informale di fronte ad un piatto di antipasti misti piemontesi, e poi in modo professionale, parlando con lui del suo film “Il bambino cattivo”, durante un dibattito. Un uomo dalla grande esperienza di vita, che sa parlare di importanti temi esistenziali con una saggezza che cattura l’interlocutore, e un artista altrettanto esperto, che mostra una complessità e una sensibilità rare quanto preziose per il nostro cinema. Sono felice di poterlo incontrare di nuovo e di farlo per parlare del suo nuovo importante progetto.

Dopo cinquant’anni di carriera, infatti, Pupi Avati torna al cinema con cui ha iniziato, l’horror-gotico, con il film che uscirà nelle sale ad agosto 2019, dal titolo “Il Signor Diavolo”, tratto dal suo omonimo romanzo.

Un ritorno al cinema nero e il Male che torna ad essere protagonista; ha ritrovato la voglia di spaventarci ancora?

No, è che alla mia età si incomincia ad avere un’idea probabilmente più affidabile, più verosimile, più credibile, di quello che è il percorso della vita, che ha una sua circolarità. Si tratta di quella sensazione del ritorno, che nella cultura contadina si chiama “scollinamento”:

C’è un certo momento in cui tu sali la collina e vedi il futuro, aspetti il futuro, credi che succederà qualcosa; poi ti rendi conto, nel momento in cui arrivi al vertice di questa collina, che il percorso che hai alle spalle è infinitamente più interessante e più straordinario di quello che ti attende. Il futuro incomincia a contare sempre di meno, e inizi a rivolgerti sempre di più al passato.

Lei pensi a Proust, ad esempio; è quando la memoria incomincia a diventare ingombrante e inizi a vivere la nostalgia di quando eri più giovane, di quando eri ragazzo, con il senso di colpa verso le cose che hai fatto, probabilmente, con troppa frettolosità.

Ti rendi conto dello spreco del tempo che hai alle spalle. È una sensazione di rientro, di ritorno a casa, di regressione. Anche tutto quello che era l’apprendimento si trasforma in disapprendimento; il tuo fisico comincia in qualche modo ad essere recalcitrante con tutto quello che gli chiedi, mentre prima era una macchina oliata e perfetta, che praticamente coincideva totalmente con il tuo pensiero, con la tua mente. Ora è tutt’altra cosa: quello che tu pensi, desideri, ti aspetti, ti immagini, non è quello che tu riesci a fare. Quello che riesci a fare, ormai, è molto poco. Però si ritorna, sempre di più, ad una sorta di nostalgia della propria infanzia, che si va a sostituire a quella della propria giovinezza. Io sono entrato nella vecchiaia, ho ottant’anni, quindi in quell’età in cui veramente si assomiglia sempre di più a quel bambino e quel ragazzetto che sei stato.

Noi siamo stati educati attraverso la paura, sia con la favola contadina che con il tipo di religiosità preconciliare che ci veniva impartita, che era una religiosità molto cupa, molto tesa, con un senso del peccato molto forte.

Tutto questo ha stimolato la creatività di quelle generazioni, adesso invece la creatività la comprano a Silicon Valley, a Cupertino, non la auto-producono più i ragazzini di adesso.

A proposito di infanzia e adolescenza, questo tema è già stato presente nella sua esperienza artistica. Ne “Il bambino cattivo” queste fasi della vita erano legate soprattutto a relazioni disfunzionali con adulti patologici e patologizzanti. Anche “Il Signor Diavolo” fornisce questo tipo di lettura?

Probabilmente nella difficile separazione o cerimonia degli addii intervenuta tra me e il mio fisico, sopravvive e si rafforza sempre più un immaginario che assomiglia molto all’immaginario infantile. Ne “Il bambino cattivo” che lei ha citato era come gli occhi di un bambino potessero essere testimoni di una situazione di adulti totalmente impreparati, immaturi e irresponsabili, nei riguardi dei danni che stavano procurando.

Qui mi è piaciuto ritornare a vedere il mondo attraverso le paure di un personaggio simbolico del male, forse il più rappresentativo (almeno fino a poco tempo fa lo era, adesso è scomparso, non se ne parla più), appunto il Demonio.

È un rimettere in campo il Demonio in un contesto come quello del Delta del Po degli anni Cinquanta, visto dai chierichetti. Io ho fatto il chierichetto quasi di professione, quindi può immaginare come l’immaginazione possa galoppare, dilatarsi e produrre quel tipo di suggestioni che io da un po’ di tempo non cercavo più e invece adesso mi è piaciuto tornare a cercare.

Il suo ultimo film è tratto dal suo libro omonimo. Il linguaggio non è mai casuale e i titoli contengono delle parole chiave scelte con cura affinché il lettore o lo spettatore decidano di aprire la porta e far entrare nel loro mondo una nuova storia. Il titolo che ha scelto non è “Il Diavolo”, ma “Il Signor Diavolo”, un accostamento di termini che mi ha colpito. Ci può spiegare il significato di questa scelta?

Il motivo è che il sacrestano della chiesa di questo paese diceva che le persone importanti e cattive bisogna trattarle bene. Poi, vedendo il film, ci si renderà conto del perché. Il finale dà una risposta a questa domanda.

L’Italia è un Paese con una grande tradizione per quanto riguarda il cinema horror. Pensiamo ad esempio a Dario Argento, Lucio Fulci, Lamberto Bava, Ruggero Deodato, oltre a lei, e a come i lavori di alcuni registi abbiano influenzato il cinema di questo genere anche oltreoceano. Che cosa è successo? Dove e come si è interrotta questa grande capacità espressiva del cinema italiano, dato che l’horror è un genere che non ha mai perso il suo fascino sugli spettatori?

La tradizione horror italiana è completamente dilapidata, dispersa, erosa. Gli esponenti più rappresentativi di questo genere sono o ormai non più in attività, o addirittura non sono più vivi. Ci si è buttati a corpo morto nella commedia, si pensa che la commedia sia risolutrice di quelli che sono i grandi problemi del cinema italiano. Non so se siamo in agonia, o se siamo già defunti, ma se lei guarda il bollettino di guerra pubblicato poche ore fa, vede che gli incassi sono modesti, di tutto il cinema, ma quelli del cinema italiano sono imbarazzanti. Non ho ricordo di così poche presenze dei film italiani come adesso. Un rifiuto totale, perché la gente si è anche stancata delle commedie. I generi, se non altro, ci mettevano nelle condizioni di esportare i nostri prodotti, perché il genere al quale allude, il genere gotico, horror, thriller, era un genere che veniva venduto in gran parte del mondo.

Poi c’è anche uno star system che è davvero mortificante. Adesso è più facile mettere insieme su una panchina molto corta, panchina intesa in senso sportivo, gli stessi attori. Li vedi in un film che fanno una cosa, in un altro film che ne fanno un’altra, poi stanno nella fiction televisiva; sono sempre gli stessi dieci attori. Non parlo solo del fronte numerico, ma anche qualitativo.

Se lei deve cercare un erede di Marcello Mastroianni, chi è? Non parliamo di Sordi, non parliamo di Tognazzi. Le grandi attrici: chi sono le eredi della Cardinale, della Loren, della Lollobrigida? Non so. Ci siamo ridotti a un cortiletto sotto casa, dove si svolge il presente.

Io mi auguro che prima o poi il presente finisca, perché è insopportabile il presente. Questa idea che il presente contenga tutte le verità travisa tutto, perché qualunque cultura si è anche fondata sul passato.

Il passato ha sempre avuto un grandissimo ruolo, anche per fare una comparazione, per vedere il percorso che abbiamo fatto, se è involutivo o evolutivo. Magari scopriamo che adesso stiamo infinitamente meglio di quanto stessimo trentacinque o cinquant’anni fa, però siamo anche infinitamente più infelici; allora perché sembriamo così felici?.

A proposito di questo, visto che la storia de “Il Signor Diavolo” si svolge negli anni Cinquanta e lei ha vissuto quel periodo e questo, il suo film è uno sguardo al passato che ci fa capire che siamo cambiati oppure che non siamo molto cambiati, ma abbiamo semplicemente declinato in modo diverso tradizioni, credenze, paure e superstizioni?

In termini di tradizioni, credenze e soprattutto paure siamo cambiati, nel senso che le paure sono state totalmente debellate e bandite da qualunque tipo di contesto educativo. Il bambino non deve essere più spaventato in alcun modo, e questo lo ha privato della possibilità di essere creativo, perché non c’è nulla di così creativo come la paura. Nel momento in cui tu hai paura sei totalmente presente a te stesso. Se mi lasciano chiuso a chiave dentro una stanza buia, e questo è il leitmotiv della mia vita, io non so neppure le dimensioni di questa stanza; non so se sono in un luogo piccolo o grande, perché è totalmente buia. È quel buio che non c’è più da nessuna parte. C’è ancora il buio? Dove lo trovi il buio? Il buio delle stanze da letto di campagna, dove ci facevano dormire, non c’è più.

La paura è fortemente creativa, perché il tuo immaginario riempie quel buio: ogni scricchiolio, ogni cosa, evoca qualcosa di terrificante, è la tua fantasia che è chiamata a riempire tutto quel buio. Hai una lavagna davanti, e puoi disegnare su quella lavagna quello che ti pare. Nel terrore e nel panico si diventa molto creativi.

Mi ricordo, quando ero piccola, che di notte, nella mia stanza, c’era quel buio non tanto buio e magari un abito su una sedia o un’ombra sul soffitto diventavano subito qualcosa di spaventoso che si muoveva minaccioso.

L’importante è che sia provenuto da lei, che lei non sia la fruitrice di immaginari altrui. Invece adesso i nostri figli e i nostri nipoti sono completamente clienti o fruitori di immaginari altrui, che vengono da altri mondi, da altre culture. Siamo fortemente colonizzati. Abbiamo rinunciato alla nostra identità in un modo precipitoso. Noi avremmo una potenzialità nella cultura contadina, ancora adesso, se riuscissimo a ricordarci com’era e com’era fatta, per poter raccontare storie magnifiche, che lasciamo raccontare agli americani e non raccontiamo noi, non so perché.

Quali sono gli ingredienti principali di questo film e gli aspetti che creeranno maggiore impatto psicologico sullo spettatore?

Innanzitutto penso che un film di questo genere meriti di essere visto soprattutto per quella che è la tensione che accompagna il racconto dall’inizio.

Tu rimani lì, se qualcuno ti chiede di uscire dalla sala non puoi farlo, vuoi sapere come va a finire. È come il libro che non smetti di leggere fino a quando non sei arrivato alla fine. Questo è un ingrediente sostanziale di una narrazione di questo genere, che è la tensione, il ricatto narrativo per cui lo spettatore è costretto dalla curiosità, crescente, di giustificare e spiegare gli eventi che via via vengono proposti sullo schermo.

Poi è evidente che una delle componenti di forza del film è il finale, cioè come chiude la storia.

Se la storia chiude in un modo totalmente prevedibile, è evidente che l’intera narrazione viene compromessa. Il risultato è molto nella faccia delle persone quando si riaccendono le luci. Se si crea quella sorta di spiazzamento nei riguardi di un racconto, per quanto tu abbia immaginato come sarebbe andata a finire, non ti può essere venuta in mente certamente quella cosa là.

C’è qualche aneddoto di “Backstage” legato alla realizzazione di questo lavoro che vuole raccontarci?

L’unico aneddoto riguarda il finale, che è stato girato di nascosto dalla troupe. Non volevamo che nessuno lo raccontasse, siccome è diverso da quello del romanzo. Non volevo privare chi ha letto il romanzo del piacere della sorpresa. Solo io, mio fratello e mia figlia sapevamo che stavamo girando il finale. Abbiamo girato una cosa che non era in sceneggiatura e gli stessi attori non sapevano che stavamo girando un finale completamente diverso da quello che era stato scritto nella sceneggiatura. Le persone che hanno letto il libro possono vedere tranquillamente il film rimanendo stupiti, perché la storia non va a finire come nel libro.

Il trailer del film:

Laura Salvai

Sono psicologa, psicoterapeuta a orientamento cognitivo-comportamentale, sessuologa clinica e terapeuta EMDR. Amo le storie e mi piace scriverle, leggerle, ascoltarle e raccontarle. Sono la fondatrice del gruppo Facebook "PSYCHOFILM" e la proprietaria di questo sito. Il cinema è per me una grande passione da sempre, diventata con il tempo anche uno dei miei principali impegni professionali.