Ted Bundy – Fascino criminale
Forse è il successo di serie come “Mindhunter” che ha risvegliato l’interesse del cinema verso le storie dei serial killer che tanto erano state presenti nella cinematografia anni Novanta.
In quegli anni il cinema era pervaso da film su questo tema: film tratti da racconti fantasiosi di grandi scrittori di thriller (come “Il collezionista di ossa”– 1999 – tratto dal libro omonimo di Jeffery Deaver) o talvolta ispirati a fatti realmente accaduti (come “Il Silenzio degli innocenti” – 1991- tratto dal bestseller “The Silence of the Lambs” di Thomas Harris) e film basati totalmente su storie di true crime (come “The Summer of Sam” di Spike Lee del 1999), che sono diventati un vero e proprio culto.
O forse l’interesse verso i serial killer non è mai cessato, se pensiamo che da “Psycho” di Hitchcock (1960) a “La casa di Jack” di Lars Von Trier (2018) sembra non esserci mai stata soluzione di continuità.
Due giorni fa è uscito al cinema un nuovo film che parla di omicidi seriali, il cui protagonista è uno dei serial killer più famigerati e prolifici d’America, Theodor Robert Bundy.
Joe Berlinger ha deciso di raccontare questa storia perversa in modo molto fedele dal punto di vista degli eventi di indagine e processuali che hanno interessato questo caso degli anni Settanta, ma l’aspetto più interessante di questo lavoro non è questo, ma il punto di vista dal quale si sviluppa la narrazione. Il racconto si basa, infatti, non tanto sulla psicologia di Ted, ma su quella della sua compagna, Elizabeth Kloepfer.
I serial killer e in genere i criminali spietati sono quasi sempre più famosi delle loro vittime. Un fatto, questo, che mi ha sempre sconcertata. Alcuni di loro, come Charles Manson, ad esempio, hanno riempito con i loro volti gli schermi televisivi e le testate giornalistiche per decenni. Il caso Manson è forse quello più emblematico da questo punto di vista, in quanto una delle vittime della “famiglia” fu un personaggio famoso, Sharon Tate, allora moglie del regista Roman Polanski. Questa fu probabilmente, proprio per la sua notorietà, l’unica vittima a cui sia stato sempre reso onore e rispetto, nel corso degli anni.
Le vittime dei serial killer diventano dei numeri; tanto più sono numerose e tanto più i loro carnefici entrano nella storia dei criminali più famosi. Ma sono state figlie e figli di qualcuno, madri, mariti, amici. Quando le si prende in considerazione sono, per lo più, elenchi di nomi che non vengono neppure letti, o che vengono letti e dimenticati.
Anche il film di Berlinger prima dei titoli di coda mette un elenco delle vittime accertate di Bundy, e questo è già qualcosa, anche se non molto, ma sicuramente il pregio di questo lavoro è aver raccontato la storia dal punto di vista di un’altra vittima, una vittima non uccisa, almeno nel corpo.
L’idea che solo dei mostri possano rendersi colpevoli di torture, violenze ed efferati omicidi ci tiene lontani dalla paura che possano essere vicini o simili a noi.
Ma queste persone sono degli esseri umani e come tali hanno delle vite, delle relazioni, proprio come noi. Chi sta loro intorno gli sopravvive a stento, perché amare o essere amico di un omicida è una delle esperienze psicologiche più devastanti.
Più di trent’anni fa lessi un libro, che si intitolava “The stranger beside me”, scritto da Ann Rule, un’amica di Ted Bundy. Ann era una scrittrice che si occupava di true crime. Negli anni ’70, quando la notizia che un serial killer stava uccidendo giovani ragazze venne alla luce, Ann pensò di dover raccontare una storia che non aveva nulla a che fare con la sua vita; la storia di un mostro, molto lontano da lei. Ma ben presto si accorse che la cosa non sarebbe andata come pensava.
Ann Rule scrive, nella prefazione del suo libro:
“To write a book about an anonymous murder suspect is one thing. To write such a book about someone you have known and cared for for ten years is quite another. And yet, that is exactly what has happened. My contract to write this book was signed many months before Ted Bundy became the prime suspect in more than a dozen homicide cases. My book would not be about a faceless name in a newspaper, about one unknown out of the over one million people who live in the Seattle area; it would be about my friend, Ted Bundy”.
È possibile che l’affascinante studente di legge e di psicologia, gentile ed educato, nasconda un’anima così oscura?
Ann, come Elizabeth, ha dovuto affrontare qualcosa che pare impossibile poter elaborare: aver provato affetto o amore per qualcuno che si è preso delle vite nel modo più atroce possibile; non aver capito; dover portare con sé un senso di colpa enorme per non essere riuscita a comprendere e a fermarlo, come se ogni vittima fosse morta anche a causa sua.
Ho apprezzato questo film, per essersi concentrato più su ciò che stava intorno a Ted che su Ted stesso. Per non aver puntato sui delitti, sulle scene truculente, sul creare nello spettatore quella paura che allo stesso tempo affascina, ma sulla sofferenza delle persone che lo hanno amato, vittime tra le sue vittime.