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ToHorror Film Fest 2016 – I cortometraggi

[Attenzione Spoiler: vengono svelati particolari delle trame]

Oltre alla sezione lungometraggi, la XVI edizione del TOHorror Film Fest ha ospitato una vasta gamma di cortometraggi. Purtroppo non ho avuto modo di vederli tutti, per cui mi limito a quelli visti nelle due giornate dell’ 11 e 13 ottobre, che già sono comunque carichi di molti spunti di riflessione in chiave psicologica.

Nella serata di apertura del festival (11 ottobre) sono stati proiettati tre cortometraggi: “Event Horizon”, “La leggenda della torre”, “Un ciel bleu presque parfait”.

“Event Horizon” (Joséfa Celestin, UK/Francia 2016), che ha ricevuto una menzione speciale a fine festival, è un cortometraggio che tratta con originalità il tema del bullismo e della diversità. Julianne è una ragazza particolare: indossa un casco stile aviatore che la protegge dalle radiazioni elettromagnetiche e ha un’amica immaginaria con cui dialoga. Questa sua diversità non passa inosservata a un gruppo di bulli, che la prendono di mira. L’elemento di paura e tensione è dato dalla presenza nel cielo di un misterioso buco nero, scoperto da Julianne e a cui i bulli vogliono farsi condurre. Il rendere partecipi i bulli di questa sua scoperta non fa certo in modo che lei venga accettata da loro, ma anzi gli insulti proseguono e, a un certo punto, vogliono addirittura scagliarla contro il buco nero. Alla fine, tuttavia, Julianne decide di dirigersi volontariamente verso quel buco nero, volandoci come avesse una navicella spaziale; tra l’altro “Event Horizon” era il nome dell’astronave nel film horror fantascientifico “Punto di non ritorno – Event Horizon” (1997), dotata di un micro buco nero che creava un tunnel spazio-temporale per viaggiare da una parte all’altra dell’universo. Lanciarsi verso il buco nero potrebbe simbolizzare l’accettazione della sua diversità? O forse un maggiore ripiegamento su di sé e un maggior distacco da una realtà considerata ostile, per approdare a un’altra realtà, immaginata come più accogliente? Varie possono essere le interpretazioni per un corto che sicuramente, lasciando interrogativi aperti, stupisce e fa riflettere lo spettatore.

“La leggenda della torre” (Pier Paolo Paganelli & Guglielmo Trautvetter, Italia 2015) è un adattamento della leggenda della torre degli Asinelli. Siamo nella Bologna del Medioevo e Asinelli, di umili origini, per avere in sposa la figlia dei signori Garisenda, dovrebbe costruire una torre più alta della loro (impresa pressoché impossibile data la sua povertà). Ci riuscirà ma solo facendo un patto con la Morte, che non sarà tuttavia privo di conseguenze: il prezzo da pagare sarà infatti il sacrificio del primogenito che nascerà, in cambio dell’aiuto nell’impresa. Il cortometraggio ripropone quello che è il tema presente in molte leggende di costruzioni medioevali (come ad esempio quelle dei vari Ponti del Diavolo presenti in Italia): c’è un forte desiderio accompagnato dall’impossibilità di poterlo soddisfare con i propri mezzi, e il ricorso a stratagemmi di dubbia moralità (patti col Diavolo o altre entità maligne), che però hanno sempre un carissimo prezzo da pagare (di solito la vita o l’anima di un innocente), tanto che il protagonista della storia finisce sempre per pentirsi del patto stipulato, e per cercare di trovare un soluzione che impedisca il pagamento del debito. Si tratta quindi di leggende in cui sovrannaturale, credenze popolari, paura e intento educativo si mescolano e diventano parte del patrimonio culturale tramandato.

“Un ciel bleu presque parfait” (Quarxx, Francia 2015) è stato il mio cortometraggio preferito di questa prima tripletta, che ha ricevuto tra l’altro il premio Bloody Simple per gli effetti speciali. Il cortometraggio racconta del rapporto di Simon con sua sorella Estelle. Quest’ultima ha una grave disabilità causata da un terribile incidente accaduto nell’infanzia: i due fratelli trovarono la pistola del padre e, mentre ci stavano giocando, un colpo partì dritto alla testa di Estelle. Di quell’episodio dalla portata traumatica, Simon si sente profondamente responsabile e, una volta adulti, si occupa della sorella con grande dedizione e non permettendo a nessuno di mettere in discussione il modo in cui si prende cura di lei e, soprattutto, cosa lui pensa Estelle voglia. Colpisce molta la scena in cui Simon paga un gigolò per sua sorella, introducendo la questione della sessualità nella disabilità, tema molto controverso e poco trattato. Nella mente di Simon, tuttavia, abitano strane visioni e convinzioni: crede di essere in contatto con gli alieni, che presto verranno a prendere lui e sua sorella per portarli via. Quando gli episodi di delirio paranoide si faranno più intensi e manifesti, scatteranno i controlli da parte dei servizi sociali per valutare la capacità di Simon di prendersi cura della sorella, e la cosa non potrà che avere effetti devastanti. Il cortometraggio colpisce per il modo in cui temi importanti quali il trauma nell’infanzia, la psicosi e la disabilità, vengono narrati all’interno di una storia che, pur nelle tinte dark, non perde di credibilità. Le allucinazioni di Simon acquisiscono infatti un significato profondo se le si inquadra all’interno di un quadro delirante e della sua storia personale, e si inseriscono in modo coerente all’interno della narrazione.

Il 13 ottobre (terzo giorno di festival) è stata invece proiettata una serie più ampia di cortometraggi: “Freedom and Indipendence”, “Vicious”, “Under the apple tree”, “Underwater”, “Mr Dentonn”, “Pandemia”, “The Eggman” e “Nada S.A”.

“Freedom and Indipendence” (Bjorn Melhus, Germania 2015) e “Pandemia” (Marco Testa, Italia 2016) sono i due corti, che pur nell’innegabile interesse suscitato, risultano dal significato per me meno immediato, in quanto necessitano di un approfondimento post-visione data la complessità dei temi trattati (forme di capitalismo religioso nel primo corto, la prigionia del consumismo e della proprietà privata nel secondo). Dei due sento di preferire “Pandemia”: la mancanza di dialoghi o monologhi, la colonna sonora, la ragazza vestita di bianco in stile orientale che si ritaglia una porzione di spazio, che dipinge anch’essa di bianco, in cui colloca oggetti (anch’essi bianchi) dal probabile significato simbolico, creano quella tensione e quella giusta dose di mistero che incuriosiscono e inquietano lo spettatore.

“Vicious” (Lydia-Maria Emrich, Germania 2014) colpisce come un pugno allo stomaco per il suo presentarci con estrema e spiazzante brevità una scena ad alta carica emotiva, di cui non conosciamo cosa è accaduto prima, e lasciandoci soprattutto con angosciosi interrogativi su cosa potrebbe succedere poi. Vediamo un uomo che piange disperato di fronte al corpo di una ragazza uccisa da un colpo di pistola (presumibilmente sua moglie o la sua fidanzata). Dopo aver stretto in mano una scarpetta di neonato, decide di impiccarsi. Proprio nel momento in cui si agita sospeso, si sente il pianto di un neonato. L’uomo credeva che anche suo figlio o figlia fosse morto/a? Se sì, quanta angoscia e quanto pentimento può aver provato, in quel frangente, all’idea di star condannando anche suo figlio a un tragico destino? E Il bambino resterà abbandonato o qualcuno lo salverà e prenderà con sé? Cala il sipario dei titoli di coda e ogni domanda rimane senza risposta.

Dopo “Vicious”, “Under the apple tree” (Van Schaaik Erik, Belgio/Olanda 2015) risolleva decisamente il morale.  Si tratta di un corto d’animazione dove i protagonisti sono due fratelli decisamente agli antipodi e … dei vermi.  I fratelli sono un contadino alcolista coltivatore di mele (tradizione di famiglia) e il prete del posto, che evidentemente disprezza il fratello e vorrebbe abbattere tutti i suoi meli. Quando il contadino muore suicida in seguito al fallimento del suo raccolto (le mele sono invase dai vermi), il fratello prete lo seppellisce senza tanti riguardi e, anzi, sollevato dalla prospettiva di poter abbattere finalmente tutti quegli alberi portatori del frutto del peccato. Ma il contadino riuscirà a prendersi una rivincita dall’aldilà, grazie proprio a quei vermi che gli avevano distrutto il raccolto. I vermi infatti entrano nel suo corpo sepolto e scoprono di poterne prendere il controllo e farlo muovere come uno zombie. Ovviamente la vittima di questo sarà proprio il fratello prete, terrorizzato dal presunto ritorno dalla morte del fratello, e poi di tutti gli altri morti del cimitero. Quello del rapporto conflittuale tra fratelli, favoriti diversamente dai genitori (in un dialogo, emerge che il fratello prete è sempre stato il preferito dalla madre) e la profonda sofferenza di uno dei due (come vediamo nell’alcolismo del fratello contadino) sono temi ricorrenti nella letteratura e nel cinema. Il pregio di questo corto è, tuttavia, quello di unire una storia di macabra rivincita (che riprende la tradizione horror degli zombie) con scene di comicità: i vermi sono inconsapevoli del terribile scherzo che stanno giocando al prete e, inoltre, risultano divertenti i siparietti tra di loro, come anche la scena in cui imparano a comandare i cadaveri.

Con “Underwater” (Virginie Calloone, Francia 2016) andiamo più verso il genere thriller. Jeanne Clairsen ha un grande talento, ha un “orecchio d’oro”, in quanto riesce a captare e a discriminare suoni non udibili agli altri. Questa capacità in realtà non è un dono di natura, ma è il risultato del suo essere stata vittima per anni, quando era piccola, di uno psicopatico che la rapì e la tenne al buio per tutto quel tempo: quando la polizia la trovò, non riusciva più a parlare, era pressoché cieca ma il suo udito era diventato portentoso. Il capo della polizia, che allora la salvò, rimane in contatto con lei e decide di ricorrere al suo aiuto, ogni volta che si trova ad affrontare un caso difficile. Stavolta a Jeanne verrà chiesto di usare il suo formidabile udito per ascoltare dentro l’appartamento del sospettato di una serie di omicidi, per capire se davvero c’è al suo interno una delle ragazze scomparse. Oltre al caso in sé (dove il serial killer è una donna che riduce le sue vittime a bambole per sua figlia), risulta soprattutto interessante il significato assunto dall’udito straordinario di Jeanne, che diventa prova di come da un evento terribilmente traumatico possa nascere anche una risorsa importante, per sé e per gli altri. Un bel cortometraggio che mi sono sentita di votare come mio preferito (pur piacendomene anche altri).

“Mr Dentonn” (Ivan Villamel Sanchez, Spagna 2015) è una sorta di favola nera, di quelle che non dovrebbero essere raccontate ai bambini, soprattutto perché c’è il rischio che il mostro della storia si materializzi per davvero, proprio come avviene in questo corto. Laura racconta a suo fratello minore, a cui sta facendo da baby-sitter, la storia di Mr Dentonn, un uomo-mostro che ruba l’innocenza dei bambini. Mentre procede la lettura vediamo il mostro realmente avvicinarsi alla casa e, alla fine, assistiamo allo scontro tra lui e Laura che cerca di salvare il fratello. La storia potrebbe rappresentare il tentativo strenuo di difendere quei bambini attaccati da quanti li vogliono strappare prematuramente al mondo dell’infanzia (sfruttamento minorile, pedofilia …). Una lotta che nella storia di questo cortometraggio purtroppo viene persa: il mostro è più forte e il finale ci lascia con un sapore amaro in bocca e con una visione pessimistica, anche se non è escluso che il grande affetto della sorella, che cerca di far risvegliare il bambino, non possa aiutarlo a riprendersi dal baratro in cui è caduto.

“The Eggman” (Marc Wagenarr, Germania 2016) è un corto che spezza con le atmosfere noir dei precedenti. Una donna aspetta nella sua cucina l’Uomo delle Uova, che arriva con una valigia su cui sistema una gallina affinché deponga le uova; la donna tenterà di sedurre l’uomo ma verrà rifiutata. Il corto (in bianco e nero) è pieno di simbolismi, quali il ticchettio dell’orologio, il quadro della Madonna del Latte, il deporre le uova e infine l’uovo che alla fine si rompe, che rappresentano l’ansia della donna per il ticchettare del suo orologio biologico e la sua difficoltà a realizzare il suo desiderio di maternità.

“NADA S.A.” (Caye Casas, Spagna 2014) è un cortometraggio geniale, che spicca su tutti gli altri per la sua grande originalità e che, tra l’altro, avrei votato se non fosse che “Underwater” corrispondeva più alla mia idea di tensione in un festival come questo e alla mia passione per il thriller. Non che “NADA S.A.” non ci presenti una situazione a suo modo angosciante. Cosa fareste se vi offrissero 2500 euro per non far nulla per 10 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, con la prospettiva di un aumento annuale del 30%  se state alle regole? Carlos, il protagonista del corto, è disoccupato da anni e ormai non ha più speranza di trovare un lavoro, e quando gli viene proposto questo bizzarro incarico non può che accettare. Gli sembrano soldi facili, del resto come non accettare la proposta di essere pagati così tanto per non far niente, soprattutto nelle sue condizioni economiche disperate? Carlos tuttavia si trova ben presto a rendersi conto di aver sottovalutato le regole che l’incarico impone: deve stare seduto su una sedia senza alcuna possibilità di alzarsi, non può andare in bagno, non può bere o mangiare, né chiacchierare con la sua guardia e nemmeno dormire. Le difficoltà fisiche e la noia si fanno presto sentire con tutto il loro peso. La guardia, incaricata di controllarlo standogli in piedi di fronte per tutte quelle ore, è il primo a cedere, soprattutto quando scopre che la sua paga è di molto inferiore a quella di Carlos. Quest’ultimo si trova in breve tempo non solo a perdere l’unico contatto umano permesso (con cui a fine turno almeno scambiava qualche parola) ma anche un’amicizia, senza averne nessuna colpa.

Parallelamente, dai monologhi mentali di Carlos, scopriamo che intanto è riuscito a pagare il mutuo della casa, ma la moglie pretende di più e vuole che lui mantenga il suo lavoro ancora per un po’, nonostante lui voglia lasciarlo, ormai stanco di un lavoro che lo aliena del tutto. Nel frattempo, man mano che il suo stipendio aumenta, la sua vita in realtà si impoverisce progressivamente: non riesce a godersi i soldi guadagnati bloccato com’è per tante ore nell’immobilità del suo lavoro; sua moglie (che non è per nulla sintonizzata sui bisogni e desideri di Carlos) lo tradisce e alla fine divorziano ma la situazione, anziché sollevarlo dallo stare con una moglie troppo ambiziosa, lo porta all’onere di versarle gli alimenti (visto che nel frattempo hanno pure avuto un bambino). Vediamo quindi Carlos ingabbiarsi sempre di più negli anni, mentre è bloccato nel dilemma se lasciare quel lavoro (di cui ha comunque bisogno per pagarsi le spese) o se riappropriarsi della sua vera vita, tornando però alla disoccupazione. Il dilemma dura per anni e contemporaneamte in lui si insidia il dubbio che forse nessuno lo stia davvero controllando, visto che non è più arrivata nessuna guardia a sostituire la precedente né gli sembra ci siano telecamere. Alla fine, un giorno, decide di alzarsi da quella sedia, non tanto per porre davvero fine a quel lavoro, ma piuttosto disposto a rischiare, convinto in fondo che nessuno lo licenzierà perché nessuno scoprirà questa sua trasgressione, per cui potrà continuare a guadagnare senza più quel giogo diventato insopportabile. Ma, nel momento stesso in cui si alza dalla sedia, ecco che da un’altoparlante esce una voce che gli comunica il suo licenziamento.

Nel corto vengono riproposte quelle che sono le problematiche che si possono riscontrare nel mondo del lavoro: la disoccupazione che porta a fare scelte lavorative sofferte quando si presentano, rivalità tra colleghi, controllo assoluto dall’alto sia sull’operato sia sul rispetto delle regole in cui ogni iniziativa viene scoraggiata, il troppo tempo sottratto alla vita affettiva e al salutare tempo libero. Il paradosso di un lavoro in cui non si deve far niente è un espediente narrativo originalissimo, che aumenta l’impatto del cortometraggio e stimola ancora di più la riflessione. “NADA S.A.” sicuramente merita il premio del pubblico ottenuto a fine festival.

Concludendo, la galleria di cortometraggi presentata è varia sia per tematiche presentate sia per stili, avendo però come filo conduttore l’uomo di fronte alle sue molteplici paure.

Laura Lambertucci

Sono una psicologa e psicoterapeuta ad orientamento cognitivo-comportamentale. Condivido con Laura Salvai, oltre alla formazione e al nome, anche la passione per il cinema, che mi ha portata a conoscere il suo gruppo Facebook PSYCHOFILM e questo suo sito, per il quale sono felice di collaborare.