ToHorror Film Fest 2016 – Sezione lungometraggi: German Angst
[Attenzione Spoiler: vengono svelati particolari della trama]
“German Angst” (Angst = angoscia, paura, ansia) è un film di Jörg Buttgereit, Michal Kosakowski e Andreas Marschall, che si compone di tre episodi, uniti tra loro da una carrellata di immagini di antichi edifici berlinesi dall’architettura inquietante e accomunati da uno sfondo “mistico” e disturbante.
Esiste anche un altro particolare che unisce i tre contributi di questa antologia: un legame non spiegato tra il primo e l’ultimo episodio. Nella scena finale del terzo episodio, è visibile, appesa al muro della casa di una delle protagoniste (Kira), una foto della protagonista del primo episodio, ritratta con in mano i suoi porcellini d’india, animali che utilizza per la sua originalissima narrazione.
Prima di entrare nello specifico delle storie che il lungometraggio racconta, però, cerchiamo di conoscere meglio gli autori di questa interessante opera cinematografica:
Jörg Buttgereit è il regista di “Nekromantic” (1987), film a bassissimo budget girato da attori non professionisti che, benché di qualità quasi amatoriale, è diventato un cult, rivisitando il filone “necrofilo” iniziato da D’Amato alla fine degli anni Settanta (“Buio Omega”).
Michal Kosakowski è il regista del più recente “Zero Killed” (2011), un film “documentaristico” in cui alcune persone parlano delle loro fantasie omicide, che ha avuto un enorme successo in decine di festival cinematografici internazionali e ha ricevuto svariati premi.
Infine, i lavori più importanti di Andreas Marschall sono “Le lacrime di Kali” (2004), che racconta tre storie che hanno come filo comune le efferatezze dei membri della setta Taylor-Eriksson, e “Masks” (2011), considerato il remake di “Suspiria” di Dario Argento.
Dei curricula di tutto rispetto. Come potevano, quindi, deluderci? Infatti “German Angst” è davvero bello, psicologicamente disturbante al punto giusto, con espedienti narrativi poco usuali e di grande impatto e un’originalità molto rara nel cinema, non solo horror, che allontana questo prodotto dai soliti cliché e che stupisce per il valore semantico che trasmette.
“FINAL GIRL” di Jörg Buttgereit:
Il primo episodio si apre con alcune inquadrature quasi voyeuristiche sul corpo addormentato di una ragazza, con degli zoom su particolari che infastidiscono un po’ lo spettatore, come l’unghia di un alluce poco curata, un capello tra le labbra e la peluria all’interno dell’ombelico. C’è poi una panoramica su una stanza disordinata e si sente una notizia di cronaca alla radio, che racconta la vicenda di un uomo di origini turche che ha decapitato la moglie sulla cima di un palazzo, gettando, poi, la sua testa in strada. L’uomo, catturato dalla polizia, avrebbe detto “Io sono Gesù e lei era il Diavolo”.
La telecamera si sposta su una grande lettiera, posizionata dietro al letto della giovane, in cui scorrazzano due porcellini d’india, protagonisti della narrazione della ragazza, che inizia con il raccontare nei particolari che uno dei due ha subito un’amputazione alla zampetta. L’animaletto, in modo del tutto inaspettato rispetto a quello che molti veterinari avrebbero pensato, si è ripreso dalla lesione e dall’operazione invasiva e questa è la prima metafora che la sceneggiatura utilizza per introdurre il tema del trauma, che la protagonista della storia certamente ha vissuto, per quanto ci è dato a intendere attraverso i passaggi successivi.
Apparentemente la ragazza è sola in casa, ma poi accade qualcosa di sorprendente… l’immagine dell’adolescente innocente e dolce della protagonista viene stravolta, quando la giovane si reca nella stanza da letto attigua e l’inquadratura si sposta sul corpo di un uomo seminudo, sdraiato sul letto, legato e imbavagliato.
Parte una nuova narrazione, su come i porcellini d’india vengano sterilizzati attraverso l’asportazione dei testicoli, operazione che viene fatta sotto anestesia perché sarebbe troppo traumatizzante per loro. Durante il racconto, la ragazza sale a cavalcioni sull’uomo e con un trinciapollo effettua la stessa operazione su di lui, ovviamente senza anestesia, continuando a raccontare quali sono i rischi post-operatori per gli animaletti. Si sposta poi in una cucina sporca e disordinata e recupera un coltello elettrico con il quale decapiterà la sua vittima pronunciando le stesse parole dette dall’assassino di cui parlava la radio (“Io sono Gesù e tu sei il diavolo”).
Il tutto è intervallato da alcune immagini dell’uomo com’era prima di essere tenuto in ostaggio e della ragazza che mostra dei comportamenti autolesionistici, procurandosi dei tagli sulle gambe con una lametta. L’autolesionismo è uno dei possibili sintomi conseguenti agli eventi traumatici, tra cui la violenza e gli abusi, e questo particolare ci conferma il sospetto che la ragazza ne sia stata vittima.
Si può facilmente ipotizzare, infatti, che la vendetta messa in atto dalla protagonista sia la conseguenza di una o più violenze o abusi su di lei da parte dell’uomo (che probabilmente è il padre), anche se viene messo in dubbio che tale vendetta sia stata di fatto perpetrata o sia stata solo una fantasia, dato che nella scena finale la ragazza esce dalla casa con delle valigie e l’uomo la guarda dalla finestra (è un flashback o l’immagine dell’uomo che la guarda andare via è contemporanea al suo allontanamento dall’abitazione?).
Un altro particolare che può essere riferito alla violenza sessuale è che la ragazza, durante il racconto metaforico sui porcellini d’india, dica che noi uomini interpretiamo male i movimenti e i segnali di disagio di questi animali; ad esempio, pensiamo che quando sollevano la testa mentre li accarezziamo gradiscano le nostre coccole, mentre i porcellini d’india non le amano affatto, e cercano con quel gesto di sfuggire alle nostre carezze.
Sono molti gli elementi alla base del forte impatto che l’episodio ha sullo spettatore, tra cui la presentazione della cronologia della storia, l’espediente narrativo, i contrasti del personaggio principale, gli aspetti non svelati ma solamente intuibili e quindi fonte di dubbi e riflessioni, il tutto condito da un clima emotivo fortemente disturbante.
“MAKE A WISH” di Michal Kosakowski:
Nel secondo episodio una coppia di sordomuti si apparta in una zona disabitata ed entra in un edificio in disuso. L’inquadratura su un graffito che recita “Make a wish” (“esprimi un desiderio”), come il titolo, è evocativo della trama dell’episodio. Il ragazzo mostra alla ragazza un ciondolo che raffigura due figure umane posizionate con la testa su due poli opposti. Le racconta che il ciondolo ha a che vedere con una vecchia magia famigliare: negli anni ’40 dei militari tedeschi avevano sterminato la famiglia di sua nonna, in Polonia. La nonna, allora ragazzina, aveva assistito alle violenze sessuali e agli omicidi perpetrati da questi uomini ed era fuggita, ma era stata ben presto raggiunta e minacciata delle stesse sorti. Aveva dunque preso in mano il ciondolo e lo aveva ruotato. Il tedesco e un uomo polacco ferito che intanto era sopraggiunto, si erano scambiati i corpi grazie alla magia del talismano e la vittima si era trasformata, così, in carnefice, uccidendo tutti i militari e salvando la sua vita e quella della ragazza.
Non solo il ragazzo sordomuto è polacco, ma anche la sua fidanzata, così, quando un gruppo di naziskin (immediatamente identificabile poiché il leader della banda ha il tatuaggio “88” sul collo, che corrisponde alla ripetizione dell’ottava lettera dell’alfabeto “HH” – “Heil Hitler”) sopraggiunge nell’edificio, la scena passata si ripete, con esito simile e una riflessione profonda su come l’uomo “buono”, trovatosi a non rivestire più i panni della vittima e acquisendo potere sull’altro, si faccia trascinare dallo stesso odio e dimostri la stessa disumanità del suo carnefice.
Il carattere disturbante di questo episodio non è dato solo dai terribili atti di violenza fisica e psicologica messi in atto dai personaggi e dal fatto che la ragazza sordomuta venga costretta a prendere parte all’uccisione del fidanzato con la forza, ma anche dal fatto che permane il sottile dubbio nello spettatore che lo scambio di persona sia veramente avvenuto o sia stato permanente, dato che la storia della nonna viene ripetuta con esito diverso e che la ragazza sordomuta viene abbandonata a se stessa dal leader-fidanzato, al termine della storia.
“ALRAUNE” di Andreas Marschall:
Il terzo e ultimo episodio del lungometraggio racconta, infine, la storia di un uomo che, in seguito alla rottura della relazione con la fidanzata, inizia a bere, a frequentare chat online e a visionare siti pornografici, fino a trovarsi a entrare in un club del sesso molto esclusivo, dal quale gli viene detto fin da subito che non è possibile staccarsi, una volta ammessi. Qui si trova ad avere delle esperienze sessuali estreme, coadiuvate dall’uso di una sostanza estratta dalla Mandragora, pianta leggendaria dalle proprietà “magiche”.
“Ogni desiderio che mi veniva in mente era soddisfatto da lei”, racconta il protagonista della storia, riferendosi a Kira, la donna che compare nelle sue fantasie allucinatorie. Kira è reale? Sembra di sì. Pare reale la donna che incontra in discoteca e con la quale condivide una dose di cocaina nel bagno. Torna la lametta sulla gamba del primo episodio, usata questa volta sulla pelle della donna per preparare la striscia bianca; d’altra parte non è anche quello un atto autolesionistico? Fa impressione vedere usare una lametta per preparare la dose da sniffare, fa impressione vederla scorrere e vedere la pelle che si lacera e il sangue che esce. Non fa impressione vedere i due che si drogano? Sembra un po’ questa la provocazione del regista (o almeno, questa è la sensazione che la scena ha trasmesso a me).
Kira sembra reale anche perché ha delle emozioni, chiede di essere salvata, cerca di avvisare l’uomo che ciò che sta vivendo è un’illusione. Sembra molto reale e fragile quando lui la trova nella vasca da bagno e la soccorre dopo che si è procurata delle lesioni ai polsi e ai genitali, nel tentativo di uccidersi (se sia morta o no non lo si sa con assoluta certezza, ma il suo personaggio, successivamente, sparisce dalla scena).
Sono reali, però, i rapporti che l’uomo ha con lei quando è sotto l’effetto della sostanza? O sono la conseguenza di uno stato allucinatorio? Anche in questo episodio finale ci sono molti elementi di disturbo, e molti dubbi rimangono allo spettatore alla fine della narrazione. Questo è un po’ il fil-rouge che lega i tre episodi di German Angst.
La storia è una buona metafora della sex addiction (sai che se entri in questo club non potrai uscirne facilmente) e il disagio del protagonista viene dipinto con grande realismo: nonostante il malessere legato alle sue esperienze con l’allucinogeno e con il club segreto, il suo craving è talmente forte che egli continua a frequentare gli incontri del gruppo segreto, anche quando la sua ragazza torna a far parte della sua vita. Viene resa in modo molto esplicito l’uccisione della sessualità di coppia legata all’esperienza di stimoli estremi che non permettono più di vivere il sesso in modo normale e costringono a cercare esperienze sempre più forti e ad innalzare la soglia dell’eccitazione.
Il protagonista uccide la fidanzata durante uno stato allucinatorio, e torna poi a buttarsi nel delirio del sex club. Questo omicidio può essere interpretato, appunto, come una metafora della morte della sessualità di coppia, conseguenza diretta della sex addiction.
L’episodio si conclude con una scena in cui la fidanzata sostituisce Kira nelle fantasie allucinatorie del protagonista.
Generalmente non amo i film a episodi, ma questa è certamente una delle più belle antologie che abbia visto fino a oggi. L’originalità dei racconti, i messaggi che le storie, seppur in modo molto forte, trasmettono, la capacità di suscitare nello spettatore forti perplessità e renderlo allo stesso tempo soddisfatto della visione, rendono questa opera una delle più interessanti di questo periodo.
Se dovessi scegliere l’episodio che mi ha colpita maggiormente, sceglierei il primo, perché ho trovato geniale il modo in cui la terribile storia viene raccontata attraverso quella dei due porcellini d’india. Il contrasto tra la ragazza adolescente con la stanza piena di cose da adolescente e la spietata vendicatrice, il contrasto tra la storia dolce e commovente degli animali e la storia che soggiace alle scene di violenza che vengono perpetrate, il contrasto tra la quiete e la normalità della prima scena e ciò che succede dopo, sono elementi fondamentali su cui si basa il mio giudizio positivo su questo particolare lavoro.