Psychofilm

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Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema

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Come scegliere un film

Le storie che raccontiamo da bambini sono le migliori di tutta la vita. Perché le raccontiamo da dentro. Le viviamo davvero, mentre i nostri compagni ci stanno a sentire. Palpitiamo e se abbiamo un dono facciamo palpitare gli altri.

Questa purezza così vera si incrina con i primi insegnanti. Da quando alla fine di una storia che ti leggono in classe la maestra ti chiede: “Che cosa voleva dire l’autore?” Quella domanda trasforma l’immersione libera e totale in un esame che dobbiamo sostenere. Saremo stati attenti? Saremo abbastanza intelligenti da capire? Avremo preso appunti su quello che la maestra aveva tanto diligentemente spiegato?

Questa idea così in buona fede, sostenuta da generazioni di insegnanti, riposa su una premessa: la storia ha sempre un messaggio. È una convinzione tanto universale quanto fallimentare, con implicazioni che gli insegnanti stessi forse faticano a cogliere.

Dire che una storia ha un messaggio significa dire – tra le altre cose – che l’autore è depositario della sua verità ultima. Che esiste una chiave di lettura “giusta”, definitiva. Eppure sappiamo che le storie non sopravvivono grazie all’autore ma grazie al pubblico. E lo fanno perché il pubblico, di generazione in generazione, con il cambiare dei tempi , continua a leggerci significati diversi.

La storia vive nel momento in cui viene raccontata e sentita. Quindi vive nell’incontro che avviene ora, in questo momento. Molto più determinante del senso che l’autore pensava di darle, è la molteplicità dei significati di cui può essere investita.

Per questo e per molti altri motivi – che magari esploreremo in altre occasioni – trovo pericoloso, ideologico e perdente parlare del messaggio di una storia. C’è in quello che facciamo molto più di quello che pensiamo. Comunichiamo molte cose senza sapere di comunicarle, riveliamo di noi aspetti che non sappiamo nemmeno di avere. La stessa cosa avviene per un autore rispetto a quello che produce.

Da filmaker posso dire che tanto più le mie intenzioni sono precise mentre giro, tanto più precisi sono i feedback che mi arrivano dal pubblico. Non è detto che si rintracci il senso che avevo nel cuore, ma ognuno trova il proprio e questo va bene. Quando invece sono generico e superficiale, anche i feedback si muovono su cose più latenti e casuali. In realtà, quindi, non è l’irrefutabilità dei significati – alias messaggi, appunto – a fare la forza di una storia, ma la precisione, la specificità dei segni messi in campo.

Quando collaboro con realtà extra cinematografiche, mi capita spesso di sentirmi chiedere consigli su liste di film da utilizzare per motivi specifici, da parte di insegnanti, operatori, psicologi. Quasi sempre verifico che il problema non sta nel non conoscere titoli giusti, ma nel criterio di ricerca. Perché, appunto, si confondono dei piani che vanno distinti.

Poniamo ad esempio il caso di uno psicologo che volesse utilizzare un film per parlare di suicidio con una classe. Un compagno è stato trovato impiccato in camera sua e adesso c’è un mare di dolore da gestire tra i ragazzi. La domanda che mi fa lo psicologo normalmente è: “conosci qualche bel film che parli di suicidio”?

Risposta: Sì. Ma non è detto che nel film qualcuno si suiciderà.

Cosa pensa lo psicologo? Devo trovare un film che mostri qualcuno che si suicida e che “passi” un messaggio positivo sulla vita.  Questa è la confusione fatale: la ricerca del messaggio nel film. Ma soprattutto per coloro che usano il cinema come strumento per affrontare e capire la vita autentica, il messaggio esplicito dovrebbe essere aborrito. Perché la storia con messaggio pialla desideri azioni e ostacoli dei personaggi al fine di dimostrare un’idea. Ed è la prima grande scorrettezza nei confronti dei personaggi e del pubblico.

Non consiglio allo psicologo di cercare un film che dica che il suicidio è sbagliato. E nemmeno il suo contrario. Il fatto è che un compagno si è impiccato. Ma il significato qual è? Che cosa c’è in gioco veramente in questo suicidio? Di che cosa stiamo veramente parlando? Eccoci nel regno del Tema Profondo.  Non che cosa è successo? Non di chi è la storia? Non che cosa voleva dire l’autore? Ma di che cosa stiamo veramente parlando? Questo tema profondo si esprime sempre nella formulazione sintetica e chiara di un conflitto.

Supponiamo che il compagno avesse lasciato una lettera di motivazioni sulla scrivania, nella quale nomina alcuni compagni di classe e viene fuori una situazione di violento bullismo. Bene. Ora sappiamo che l’ultima cosa da fare è cercare un film sul bullismo o correre a prendere “13 reasons why”.  Invece possiamo ipotizzare che in questa tragica vicenda il problema fosse la difficoltà di provare il proprio valore agli altri. Eccoci qua, lo abbiamo preso. Ora lo teniamo per le corna. Questo è il film che ci serve. Questo è il conflitto base cui dobbiamo fare riferimento.

Il suicidio è solo quello che il personaggio fa. La superficie. La trama. Ma il movente, il desiderio profondo, il need, sono altrove.

Bisogna scavare. Se vedi un personaggio che beve, non si sta parlando dell’acqua ma della sua sete, non della sua azione ma del motivo per cui la mette in atto. La ragione è semplice: il pubblico è incuriosito dall’acqua, ma si riconosce nella sete. Le azioni sono gli elementi costitutivi della trama, ma il cuore del cinema batte nei moventi silenziosi.

A questo punto inizia la ricerca. La mente e lo spazio si aprono e dalla nebbia emerge Larry Gopnik, il protagonista di “A serious man” dei fratelli Coen. Un viaggio nel dolore di non riuscire a far sentire la propria voce. Ma accanto a lui vedo arrivare la seducente Angela Hayes, biondina irresistibile di “American beauty, che vive nell’ossessione di essere vista e confonde il proprio valore con il sesso e l’essere amata con l’essere desiderata. Anche lei avrebbe potuto appendersi in camera. Con loro spunta Hank, nello struggente ultimo film di Sydney Lumet, “Before the devil knows you’re dead (“Onora il padre e la madre” in italiano. E la stessa traduzione del titolo è un’esemplare conferma di quanto confondiamo il tema profondo con il messaggio e di quanto questo ci porti fuori strada). Un uomo che pur di dimostrare ai suoi genitori il proprio valore decide tragicamente di rapinarli. Anche lui è un candidato al suicidio, anche lui combatte la stessa battaglia.

Ce ne sono molti altri ma l’elenco non serve. Insomma. Per quanto sta in me,

Sconsiglio di cercare la verità di un film come si cerca un oggetto smarrito, perché la verità è che la verità cambia. A seconda di chi, di quando, di come guardiamo. Vale la pena di spostare l’attenzione dai fatti e dal messaggio a ciò che profondamente è in gioco nelle storie. Possiamo provare a smettere di cercare film per argomento e cominciare a cercarli per quello di cui parlano davvero.

Giovanni Covini

Sono un filmmaker e un docente di cinema. Ho incrociato Psychofilm rovistando su facebook fra gruppi di cinefili e sono stato attratto dalla vitalità e dalla comunicazione freschissima che caratterizza il gruppo. In più, sono molto ingolosito dal poter imparare da un campo così ricco come quello della psicologia. Credo che spingersi reciprocamente sui propri confini per incontrarsi sia la cosa migliore che si possa fare per crescere.