La fotografia nel cinema: intervista a Luca Coassin (AIC-Imago)
Il cinema è un’arte complessa, il cui linguaggio si compone attraverso l’uso di due principali stili di comunicazione: quello visivo e quello sonoro. L’impatto che un film ha sul pubblico dipende dalla cooperazione di diverse professionalità, che si coordinano per la realizzazione di un obiettivo comune: quello di rendere questi due tipi di linguaggio il più possibile efficaci e sinergici.
È un lavoro diretto ai sensi: ciò che è uditivo dipende dalla recitazione, dai suoni e dalla colonna sonora; ciò che è visivo dipende dal lavoro del regista, del costumista, dall’efficacia del linguaggio non verbale degli attori, dalle luci, dalla scenografia…
Oggi Psychofilm ha il piacere di potervi far conoscere da vicino una delle figure professionali più importanti in un team di lavoro cinematografico, responsabile della forza che le immagini che compongono la pellicola hanno sullo spettatore: il Direttore (o Autore) della Fotografia. Questa importante occasione di esplorare i segreti del backstage della nostra amata settima arte nasce dal mio incontro con Luca Coassin (AIC-Imago).
Benvenuto Luca, e grazie di essere qui con noi, a condividere la tua esperienza. Chi ama il cinema non può che apprezzare il lavoro di chi, come te, contribuisce in modo essenziale al fascino di un film, ma forse non tutti sanno che cosa significhi essere un cinematographer. In che cosa consiste, esattamente, il tuo lavoro?
È sempre stato difficile, agli occhi di qualcuno non addetto ai lavori, disegnare con tratti chiari questa figura professionale. Il direttore della fotografia è sempre stato il primo collaboratore del regista nella realizzazione di un film, fin dalle origini del cinema. Già in fase di preparazione e poi in ripresa e in post-produzione, decide insieme a lui lo stile e il tono visivo e narrativo del film. Un film, ricordiamolo, si fruisce innanzitutto per immagini.
A parte gli aspetti tecnici, possiamo dire che se un film fosse un quadro, il direttore della fotografia dipingerebbe questo quadro con la luce, come un musicista usa le note per comporre un brano. Per questo adesso il direttore della fotografia viene meglio definito come “Autore della Fotografia”, o “Cinematographer”.
Per fare il mio lavoro sono necessarie competenze tecniche che vanno dall’utilizzo di ottiche diverse, ai movimenti macchina, alla installazione di luci e proiettori, alla scelta dei momenti e dei tempi di ripresa, alle lavorazioni fotografiche analogiche e digitali e altro ancora. Durante le riprese il direttore della fotografia deve gestire una troupe di una o più macchine da presa e quindi figure come l’operatore alla macchina, gli assistenti, gli operatori aerei e steadicam ed inoltre le squadre di macchinisti ed elettricisti che si occupano dei movimenti macchina e dell’illuminazione della scenografia e delle location.
Il direttore della fotografia si occupa anche, sempre in stretta collaborazione con il regista, delle scelte fotografiche per quanto riguarda gli effetti speciali in ripresa, in post-produzione e in color correction. Sul set di un film il direttore della fotografia ha sempre avuto la responsabilità e il privilegio di prefigurare il risultato visivo finale dell’opera filmica; in sintesi non si tratta solamente di prendere parte a un lavoro insieme al regista, ma soprattutto della gestione di risorse umane: prima, durante e nella post-produzione della realizzazione di un’opera filmica .
Quali sono gli aspetti principali da cui parti per costruire il tuo progetto? La lettura della sceneggiatura, il confronto con il regista? Come nasce un’idea e come si trasforma in immagini?
Tutto parte dalla sceneggiatura. Nella sceneggiatura sta la fotografia del film: lo sceneggiatore racconta il film con le sue parole, il regista traduce queste parole in emozioni ed in immagini e per farlo l’autore della fotografia è lo strumento principale, o il suo primo sguardo. Il tono visivo, i colori e l’uso della macchina da presa partono sempre dalla storia.
Personalmente ritengo molto importante il momento in cui il regista mi racconta il film a voce, il primo momento di confronto. Poi si lavora insieme, e questo lavoro è anche un percorso personale. Tutto fa parte di un processo creativo, stimolante ed entusiasmante, che poi coinvolgerà i reparti di scenografia, costume e trucco.
Per me è fondamentale confrontarsi non solo nella lettura della sceneggiatura e nel lavoro di preparazione, come la scelta delle location e dei sistemi di ripresa, della pellicola o del digitale, ecc., ma anche in momenti diversi: ad esempio parlando della differenza tra un quadro e un selfie fatto in un ristorante, vedendo insieme un film totalmente diverso da quello che gireremo, discutendo se una amatriciana va fatta con il guanciale o con la pancetta. Vi è un approccio psicologico, da parte dell’autore della fotografia, nei confronti del regista. Per alcuni aspetti diventi un vero e proprio lettore delle sue emozioni, che poi devi interpretare e tradurre in immagini. Talvolta invece le immagini ti vengono fornite direttamente dal regista stesso e devi cercare di rappresentarle il più fedelmente possibile.
C’è poi un percorso personale di ricerca: studio della storia, dell’epoca in cui è ambientata, delle location e della possibilità di crearle o modificarle con il reparto scenografia, della scelta dei costumi, del lavoro di trucco sugli attori, ecc. Questo, unito alla propria esperienza personale, al vissuto dei film girati in precedenza o studiati per l’occasione, porta a delle proposte specifiche sull’uso della macchina da presa e sul tono da dare al film.
Ascoltando il regista ed eventuali suoi riferimenti, immediatamente si comincia a guardare la realtà intorno con occhi diversi, si cercano immagini, si cerca quel quadro, quell’affresco che magari avevi visto da bambino in una chiesa, quella foto o quel videoclip che avevano dato la stessa sensazione della scena da raccontare. Inizia un percorso di ricerca personale e cominci a mettere insieme il rigo musicale del film che andrai a riprendere. Tra l’altro io faccio proprio questo lavoro visivo, e nello spoglio della sceneggiatura metto in riquadri scritti le scene e le dispongo in un rigo musicale, dando loro colori diversi. Alla fine ottengo uno schema visivo inquietante ma molto funzionale, che mi aiuta a visualizzare rapidamente il film nel suo insieme.
Molti film “cult” sono nati dalla collaborazione tra grandi registi e direttori della fotografia; pensiamo ad esempio al sodalizio tra John Alcott e Stanley Kubrick, che hanno realizzato insieme molte pellicole di straordinario successo. Quanto è importante la relazione che il direttore della fotografia instaura con il regista per la realizzazione di un film di qualità?
Sven Nykvist e Ingmar Bergman, Giuseppe Rotunno e Luchino Visconti, Giuseppe Rotunno e Federico Fellini… Ci sono molti binomi come questi che hanno fatto la storia del cinema mondiale.
Un pittore o uno scrittore, per fare un’opera d’arte, per avvicinarsi e cogliere la bellezza, necessita di un pennello o di una penna… niente di più. Per un film questo non è possibile; un regista, anche il più geniale, non può fare un film da solo, il film è un lavoro di équipe, di grandi collaborazioni.
L’autore della fotografia è stato e rimane il primo collaboratore per la realizzazione artistica di un film e quando questo binomio funziona ai massimi livelli ecco che possiamo avere fra le mani alcuni tra i film che sono le colonne e il riferimento del cinema di tutti i tempi.
Vi è una dimensione che abitano solo queste due persone quando si gira un film, solo loro due sanno se quel ciak è “buono”, se l’emozione è arrivata, se quel concetto scritto nella sceneggiatura ha raggiunto lo spettatore. Il regista prima di tutto, ovviamente, che ha in mano tutti i fili, a cominciare dall’interpretazione che gli attori danno ai personaggi del racconto, ma poi solo l’autore della fotografia può condividere in tempo reale, sul set, questo risultato con lui.
Ecco quindi che il rapporto tra queste due figure, nei casi più creativi e vincenti, supera il semplice confronto professionale, e diventa un’intesa più diretta ed emozionale, che si trasferisce sul grande schermo. Le storie di grandi collaborazioni fra registi e autori della fotografia sono spesso anche storie di amicizie e di percorsi di vita fatti insieme, di una crescita professionale che è avvenuta negli anni, in un reciproco apprendimento.
La cosa bella di questo lavoro è che nessun autore della fotografia, regista o attore, può realizzare un film senza la sua troupe, senza un lavoro di squadra. Io amo molto lavorare con le persone e il processo creativo e il risultato di un’opera filmica sono sempre il risultato di un’anima collettiva. In particolare mi trovo a mio agio con troupe internazionali, perché amo condividere in ogni latitudine questo mestiere, e quando tutto è armonico la sensazione è davvero esaltante. Questo emerge anche nel film, una volta ultimato.
Come diceva Jean Pierre Melville: “Un film è fatto di una combinazione paritaria di elementi: 50% di regia, 50% di fotografia, 50% di sceneggiatura, 50% di scenografia, 50% di interpretazione, 50% di musica, 50% di montaggio e 50% di promozione. Se sbagli una sola parte, sbagli mezzo film”.
Si racconta che Kubrick chiese ad Alcott di girare “Barry Lyndon”, che gli valse nel 1976 l’Oscar per la migliore fotografia, utilizzando solo luci naturali. Lavorare all’interno di un team ampio quali spazi di autonomia decisionale permette?
Ogni film è un’esperienza diversa. Il bello di questo lavoro è anche questo: intraprendere ogni volta un nuovo viaggio, una nuova avventura. Credo che nel genio di Kubrick risieda anche la sperimentazione ai massimi livelli; in più ogni suo film può essere considerato come riferimento capostipite per ogni nuovo genere di cinema, dai contenuti alle tecniche di ripresa. In “Barry Lindon” sono state adottate tecniche poi divenute scuola nel nostro mestiere. In quel periodo, in cui non si disponeva di pellicole molto sensibili, vi sono state sperimentazioni con nuove ottiche particolarmente luminose. La decisione di lavorare solo con la luce naturale ha implicato scelte precise sul piano di lavorazione e la gestione del set e degli attori. Tutto questo faceva parte di un piano definito non necessariamente legato alla tecnica, ma anche, a mio parere, alla messa in scena e alle conseguenze narrative che certe scelte comportavano, soprattutto sul modo di lavorare sul set, con gli attori e tutta la troupe.
Credo che un regista che ambisca all’eccellenza del proprio film sappia innanzitutto come dirigere il proprio autore della fotografia, comprendere le sue capacità e amplificarle al massimo per ottenere il meglio, anche ad esempio con i limiti (o le possibilità) della luce naturale dati ad Alcott. Come diceva Kubrick: “Se può essere scritto o pensato, può essere filmato”; ogni limite si può trasformare in una potenzialità narrativa, se condiviso in modo costruttivo con il regista e la produzione. Ecco perché questo matrimonio fra regista e autore della fotografia è fondamentale e basato su una complicità massima.
La tua versatilità si è espressa chiaramente nei lavori che hai curato: film, cortometraggi, documentari; thriller, commedie, film drammatici. Ci sono delle differenze nel modo in cui la fotografia trova declinazione in queste differenti forme espressive?
Quando si fa questo mestiere ci si accorge ad ogni ciak di quanto si sia fortunati. Noi siamo cinematographers, operatori della luce, e ci mettiamo al servizio della storia, della visione del nostro regista. Un autore della fotografia può trovarsi maggiormente a suo agio in una commedia piuttosto che in un noir… molto dipende anche dalla sua esperienza lavorativa. Tuttavia ogni storia che attraversa le emozioni e i sentimenti che vogliamo raccontare è una tavola da dipingere con gli stessi colori: amore, odio, rabbia, dolcezza, compassione, amicizia, tenerezza, fede, speranza … Abbiamo la fortuna di poter attraversare ogni genere e nuotarci dentro con lo stile che più ci aggrada, di navigare nelle emozioni più antiche e più nuove che abitano la natura umana, usando lo strumento della luce nello stesso modo. Plasmarci in funzione della storia.
Per quanto mi riguarda, io mi trovo a mio agio nel girare film noir o thriller o addirittura horror, ma trovo divertentissimo anche filmare commedie, e ogni volta che ho davanti la scena di un film in costume i miei occhi brillano come quelli di un bambino di fronte ad un regalo desiderato da tempo. Non trovo che ci siano sostanziali differenze nel rapportarsi a generi diversi. È come per un attore a cui non piace essere chiuso in un ruolo, in un cliché o in un personaggio; la meraviglia che ci concede questo mestiere è la possibilità di mettersi sempre alla prova con nuove sfide.
La tua prima passione è stata la macchina fotografica: quali sono gli aspetti che accomunano la fotografia alla fotografia cinematografica?
La luce prima di tutto. Tutto nasce dalla luce, o dalle ombre: spesso quando penso ad illuminare un set decido se partire da un foglio bianco o da un foglio nero, se partire dalle ombre o dalle luci.
Come per la fotografia, bisogna rapportarsi con forme e colori, con la composizione e i pesi dell‘immagine, con il soggetto fotografato/ripreso e soprattutto con la distanza che si vuole avere dalla realtà che si ha davanti. Questo concetto, secondo me, è la chiave della fotografia e del cinema: la distanza, ovviamente anche la luce, ma soprattutto la distanza.
Quando esegui uno scatto sei tu e il soggetto. Il momento diventa magico, un momento di appartenenza unico. Quando invece fai una ripresa in movimento e fai cinema, ecco che i momenti magici sono 24 per ogni secondo. E la magia va moltiplicata per tutto il set e le persone che vi prendono parte, che hanno reso possibili quei migliaia e migliaia di fotogrammi che scorrono. Capisci che è difficile non diventare dipendenti da un tipo di esperienza come questa: finito di girare un film vuoi subito iniziarne un altro, altrimenti soffri di “astinenza”.
Continuo, allo stesso tempo, a fare fotografie, a fotografare volti: è una ricerca che mi ha sempre appassionato, quindi approfitto di tutti i miei viaggi per fermare e rendere mio un sorriso o uno sguardo di chi incontro, per vedere il riflesso di me negli occhi di chi mi sta di fronte.
Come è nato il tuo interesse verso questa professione?
Come dico spesso, era inevitabile. La classica storia del sogno di quando sei bambino. Circondato solo dalla campagna e dai quadri di mio padre, mi è sempre piaciuto dipingere, sin da piccolo. La prima macchina fotografica, il primo film in super 8, e poi il resto è venuto da sé. Le immagini, la ricerca del bello, hanno sempre fatto parte del mio quotidiano. Cinematograficamente parlando non ricordo quale sia stato il film che mi ha particolarmente colpito o segnato durante la mia infanzia. Io guardavo i film, sorridevo e piangevo ma non mi chiedevo chi fosse l’artefice di tutto questo. Però ricordo che una sera, da bambino, vidi in televisione “Miracolo a Milano” e alla fine mi commossi così tanto che decisi di voler diventare uno di quei nomi scritti nei titoli del film, quei nomi responsabili di avermi così tanto shakerato il cuore. Poi con gli studi praticamente non mi sono dato alternative, ho fatto solo quello che mi piaceva e sono stato sempre sostenuto.
Alla fine ho fatto della mia passione il mio mestiere e sono diventato un Autore della Fotografia, uno dei più modesti in confronto a molti giganti in circolazione, sia in Italia che all’ estero, ma sicuramente uno dei più appagati perché lavoro praticamente sempre nel cinema e questa è una grande fortuna.
Quali sono i tuoi maestri e i tuoi punti di riferimento principali nel cinema? A chi ti ispiri?
L’ispirazione, come dicevo prima, non viene solamente da grandi autori della fotografia, ma dalla ricerca quotidiana, dal saper vedere e leggere quello che ci sta intorno, soprattutto i grandi pittori e maestri del passato, ma anche la foto fatta da un bambino, un’opera di Bach o una scultura vista per strada; l’olfatto ad esempio è un senso fondamentale per me, anche per riprodurre dei colori o delle gradazioni di grigio sullo schermo. L’ispirazione è qualcosa di fortemente personale, intimo e profondo, bisogna svelarla con delicatezza e con forza allo stesso tempo.
Però sicuramente i riferimenti ci sono. Spesso sono singoli film, vere e proprie opere d’arte a livello fotografico; la storia del cinema ne è piena. La cinematografia italiana inoltre ha una grandissima scuola di cineoperatori e autori della fotografia, una tradizione che ci invidiano in tutto il mondo. Abbiamo nomi di grande prestigio.
Per quanto mi riguarda, senza nulla togliere a tutti i grandi presenti e passati, il mio riferimento rimane Giuseppe Rotunno che ho avuto la fortuna di avere come maestro da giovane studente. Rotunno è sicuramente una colonna, un gigante della cinematografia mondiale. Le sue collaborazioni fanno venire la pelle d’oca: Visconti, Fellini, Bob Fosse, Monicelli, Terry Gilliam, Vittorio De Sica, Mike Nichols, John Huston, Pier Paolo Pasolini, Orson Welles e tanti altri. I film che ha girato con loro rimangono ancora dei punti riferimento per molti grandi registi di fama mondiale. Possiamo definirlo un maestro della luce leggendario.
Un cinematographer all’avanguardia, se si studiano alcuni suoi film come il Gattopardo, Rocco e i suoi Fratelli, Fellini Satyricon, Amarcord, la Grande Guerra, le Notti Bianche, All that jazz, Roma, ecc., non si crede alle innovazioni visive che sono state create , e che ancora oggi restano ineguagliate.
La fotografia in un film è uno dei principali strumenti per generare impatto emotivo. Come si realizza questo impatto? Per emozionare devi prima emozionarti, entrare nella storia, empatizzare tu stesso con i personaggi?
Il linguaggio cinematografico è universale, in qualunque parte del mondo ci si emoziona allo stesso modo se una scena è raccontata bene, anche senza parole.
Come la musica o un bel dipinto, nel momento in cui si incontra la bellezza nessuno può rimanere indifferente, qualsiasi lingua lo spettatore parli, qualsiasi sia la sua provenienza sociale o geografica. Nessuna arte come il cinema riesce ad addentrarsi così nel profondo di ognuno di noi e scuoterci nel nostro Io.
Ingmar Bergman disse: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima.
E se ci pensi bene gli strumenti e la tecnica sono semplici, e sempre gli stessi, sia per il regista (campo largo, primo piano, carrello in, carrello out, panoramica, ecc.), sia per l ‘autore della fotografia (luce chiave, diffusa e controluce, ecc.). Sono come le sette note per un musicista: nonostante sia stato composto di tutto e tutto sia già stato fatto, si possono ancora creare brani bellissimi e originali, una nuova musica che arriva al cuore.
La sceneggiatura, sempre, è il primo strumento attraverso cui entrare nella storia, poi ci sono l’esperienza e il confronto con gli altri, prima e durante le riprese. Come una carta assorbente condivido le emozioni delle persone che incontro per visualizzarle (o per farmele visualizzare da loro), e sul set ricevo tutte le informazioni e gli stimoli che mi danno la location e il resto delle troupe.
Insomma, il mio è un furto autorizzato, un estrapolare continuo, un lavoro di immedesimazione, e non necessariamente di appropriazione scontata. Non è detto che una notte deve essere blu o che una luce che sia inquietante debba provenire dal basso. Ho girato interni notte con la luce necessaria ad illuminare una piazza in pieno giorno, ad esempio. L’interpretazione della sceneggiatura e della visione del regista ti aiutano a dare uno stile fotografico, che deve essere quello del film, non il tuo.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Ci puoi dare qualche anticipazione?
In questo momento in cui sto scrivendo siamo prima di Pasqua e sto lavorando ad un film ambientato in una prigione, un film drammatico tutto al femminile, una esperienza in cui tutta la scenografia è stata ricostruita in due studi vicini, la storia attraversa anni e stagioni diverse anche internamente alle protagoniste. Come dicevo prima, visivamente sto lavorando su sensazioni olfattive, mentre già i preparazione decido insieme allo scenografo i colori degli ambienti, già determinati da prima, così da concentrare il lavoro della luce solo sulle attrici. Contemporaneamente ho altri progetti di minore durata, alcuni sperimentali, tra cui quello di un film girato di notte e in totale assenza di luce, che ha come tema la paura della morte. Una sfida veramente interessante perché nella sceneggiatura non c’è luce raccontata o scritta, solo quella delle emozioni più intime del protagonista. Eppure noi qualcosa lo dobbiamo vedere al cinema! Una sfida, veramente! È un film molto interessante dal punto di vista psicologico, perché entra nella paura più primitiva di ognuno di noi, la paura della morte, interpretata da un attore molto particolare. Insomma, fotograficamente parlando una delle sfide più difficili con cui ho avuto a che fare, e per questo molto eccitante!
L’inquadratura, la luce, la messa a fuoco, lo zoom, la velocità delle scene, la presenza o no di effetti speciali, la scelta del colore o del bianco e nero, sono alcuni degli aspetti su cui si costruisce l’universo psicologico dei film: si chiede allo spettatore di avvicinarsi, di distanziarsi, di fermarsi, di accelerare, di impressionarsi, di focalizzarsi su un particolare o trascurarlo, di ricordare, di ammirare, di rilassarsi, di attivarsi, di essere parte della storia. Ci sono sempre, però, degli aspetti soggettivi che influenzano ciascuna esperienza di visione. Le stesse scelte di chi partecipa alla realizzazione di un film, per quanto influenzate dalle idee del team e dalle esigenze della produzione sono soggettive. Cosa c’è di te in ciò che fai, Luca?
Questa è una domanda che è bello sentirsi fare ma alla quale è difficile rispondere. Tutti coloro che lavorano nel cinema, chi più chi meno, a seconda delle mansioni ricoperte, hanno un’esperienza straordinaria con il vissuto che vedono rappresentato sul set.
“Il cinema esprime la realtà attraverso la realtà”, diceva Pier Paolo Pasolini. Non usa simboli come la parola per uno scrittore, segni o colori come per un pittore. Uno strumento potentissimo ma allo stesso tempo una sfida continua. Se, ad esempio, in sceneggiatura o in un libro c’è scritto “Natalia è una bella donna bionda“, ognuno di noi visualizza il proprio ideale di “bella donna bionda”, che nessuno può contestare. Nel cinema, invece, il regista deve scegliere la giusta attrice che sia ”la bella donna bionda” di tutti, l’autore della fotografia insieme al reparto trucco e al reparto costumi, deve fotografare quell’ ideale di bellezza di donna per tutti gli spettatori, non solo la rappresentazione del suo immaginario .
La realtà che usiamo per rappresentare la realtà ha comunque sempre qualcosa di molto personale: tutti noi portiamo un pezzo di noi stessi dentro ad un film.
Per un autore della fotografia sicuramente è molto forte questo intervento. Con una luce da una angolazione diversa, spostando una bandiera o cambiando una gelatina o invertendo una sfumatura di giallo in color correction ecco che una scena passa da allegra a triste, un volto diventa da rassicurante a inquietante, la gioia si rivela o il dolore si nasconde. E questo è qualcosa di assolutamente personale, che quando non lo è più diventa una bellezza o un’emozione condivisa, propria di tutti.
Sicuramente ognuno di noi cinematographers applica un transfert del proprio vissuto, magari frammentato in cento film girati in una vita, o in una singola scena. Un vero e proprio transfert emotivo con cui nutriamo il personaggio, la scena o l’azione, ma anche grazie al quale noi stessi nutriamo la nostra anima. Il risultato che verrà, infine, magicamente, potrà essere riproposto all’infinito. Ecco perché, se un film è scritto diretto e fotografato bene continuerà a farti piangere o ridere negli stessi momento ogni volta che lo rivedi.
“La luce è ideologia, sentimento, colore, tono, profondità, atmosfera, racconto.
La luce fa miracoli, aggiunge, cancella, riduce, arricchisce, sfuma, sottolinea, allude, fa diventare credibile e accettabile il fantastico, il sogno e, al contrario, può suggerire trasparenze, vibrazioni, dà miraggio alla realtà più grigia, quotidiana […] il film si scrive con la luce, lo stile si esprime con la luce”.
(Federico Fellini)
Luca Coassin nasce a Udine il 13 novembre 1967 e cresce a Budoia, un piccolo paese di 900 abitanti immerso nella natura. Inizia ad appassionarsi alla fotografia in età molto precoce, “prima ancora di imparare a scrivere il mio nome”, come dichiara lui stesso. Dopo il diploma di maturità scientifica consegue il diploma di fotografia presso l’Istituto Europeo di Design di Milano-Roma, il diploma in direzione della fotografia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema di Roma, sotto la guida di Giuseppe Rotunno e un master presso la “Academy of Drama & Film” in Ungheria. È stato il Direttore della fotografia di circa 30 film, 30 documentari, e oltre 100 cortometraggi, molti dei quali selezionati e premiati in festival europei e internazionali.
Fra i premi ricevuti
2017 Migliore fotografia per il film “Hayat” National Film Festival Tangier.
2016 Migliore fotografia per il cortometraggio “Le park” Manaki Film Festival (The International Cinematographers Film Festival ‘Manaki Brothers’) small golden camera.
2008 Migliore Fotografia “Casanegra “ Dubai film festival.
Alcuni film di interesse psicologico di cui Luca ha curato la fotografia
L’estate di mio fratello (2005)
Sergio è un bambino di nove anni e il rapporto tra i suoi genitori è in crisi. La madre rimane incinta e la coppia decide di portare avanti questa gravidanza inattesa. Sergio inizia a pensare alla sua vita dopo l’arrivo del fratellino, che diventa, con il tempo, un personaggio immaginario sempre più scomodo. Così Sergio decide di farlo morire, ma purtroppo la madre ha un aborto e Sergio si troverà a vivere un profondo senso di colpa per quello che ha immaginato e si è realizzato.
Aprimi il cuore (2002)
Il rapporto morboso tra due sorelle: Maria è una prostituta e riveste per la sorella minore Caterina il ruolo di madre, insegnante, amante. Quando scopre che Caterina ha iniziato una relazione con un uomo, Maria viene colta da una furia omicida.
(Selezione Tribeca Film Festival e Festival di Venezia)
Quore (2002)
Tre donne, tre gravidanze e tre modi diversi di viverle.
Piovono mucche (2003)
Ambientato in una comunità per disabili e interpretato da alcuni suoi ospiti, oltre che da attori professionisti.
Occhi di cristallo (2004)
Luigi Lo Cascio è l’ispettore Amaldi, sulle tracce di un feroce serial Killer che amputa parti delle sue vittime e le sostituisce con pezzi di bambola.
Secondo tempo (2010)
La violenza negli stadi, raccontata in soggettiva. Nick è un poliziotto che lavora da tempo sotto copertura per indagare su un tifoso. Un errore arbitrale durante una trasferta causerà l’esplosione dell’ira degli ultrà. Film in un unico piano sequenza di 100 minuti.
Sentirsidire – Quello che i genitori non vorrebbero mai (2011)
Due storie parallele di due ragazzi che provengono da un humus sociale molto diverso. Il primo, Ludovico, è nato e vissuto negli agi di una famiglia benestante ma a suo modo disfunzionale. Filippo invece ha umili origini e una vita caratterizzata da abusi e sofferenze. I due si incontreranno e nascerà tra loro una profonda amicizia, capace di cambiare entrambi.
Ritual – Una storia psicomagica (2013)
Lia è una donna fragile, coinvolta in un rapporto patologico con Viktor, un uomo profondamente narcisista. Quando rimane incinta e lui le impone di abortire Lia cade in una profonda depressione e tenta il suicidio. Anziché chiedere aiuto a un professionista della salute mentale, si rivolge alla zia Agata, una “guaritrice” che pratica la “psicomagia”.
La dolce arte di esistere (2015)
La storia d’amore di Massimo e Roberta, due ragazzi che soffrono entrambi di “invisibilità psicosomatica”, ma in modo inverso: lui è molto ansioso e scompare quando sente l’attenzione degli altri su di sé, lei invece quando nessuno le dà attenzione.
“La Primula Rossa”
Storia vera dell’uomo soprannominato “Primula rossa” per il suo passato di lotta armata, che ha trascorso 30 anni negli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), fino alla loro chiusura. Film attualmente in post produzione.
Alcuni cortometraggi pluripremiati
La ritirata
La drammatica crescita di una ragazzina attraverso la sua prima storia d’amore e la sua prima esperienza sessuale, durante la Seconda Guerra Mondiale.
“La giornata di Eva”
24 ore di una giovane donna. L’anoressia raccontata senza parole, solo con immagini e musica.
“Disorder”
Cortometraggio sui disturbi alimentari.
“Compito in classe”
La storia di un abuso in ambito familiare, dal punto di vista di una bambina.
“Notizie da Godot”
Un Super-Io che si visualizza in modo tragicomico allo spettatore e al protagonista del racconto.