Fare cinema nell’era digitale: intervista a “I Licaoni”
È difficile per me introdurre il team di lavoro che sto per presentarvi oggi, perché qualsiasi cosa io possa dire delle persone che lo compongono rischia di essere riduttiva; provo a partire dalla libera associazione di freudiana memoria riferendovi le parole che mi vengono alla mente pensando a loro: cinema indipendente, sperimentazione, creatività, innovazione, web, comunicazione, videoproduzione.
“I Licaoni” sono un gruppo partito dal cinema indipendente che ha saputo valorizzare al massimo le potenzialità delle nuove tecnologie, approdando sul web con un canale Youtube che vanta circa 40.000 iscrizioni, vincitore del premio “Google Next Up”.
Partner Google dal 2010, il Canale Licaoni è una moderna vetrina di divulgazione cinematografica, ricca di rubriche, tutorial di videomaking e recensioni.
Il team ha prodotto lungometraggi, cortometraggi e “webseries”, tra cui “Elba – L’eredità di Napoleone”, quinta webserie più premiata del 2015.
Oggi ci focalizzeremo sull’ultimo progetto di questa energica e sinergica squadra, il lungometraggio “Twinky Doo’s Magic World” e lo faremo con:
Benvenuti Francesca e Alessandro. State lavorando da tempo sulla realizzazione di un lungometraggio di genere Horror-Crime-Drammatico, di cui è uscita una prima versione cortometraggio. Questo progetto è partito da una fanbase, grazie a un crowdfounding molto efficace: avete raggiunto il budget necessario in una sola settimana di call to action. Vi aspettavate un risultato così rapido e una risposta così calorosa dai vostri follower?
Sinceramente no. Cioè, speravamo ovviamente che chi ci segue da anni, conoscendo la nostra dedizione alla causa del cinema indipendente, apprezzasse e sostenesse l’iniziativa. Ma c’è stata una grandissima manifestazione d’affetto che è andata ben oltre le speranze iniziali e che davvero non ci aspettavamo.
La storia di questo lungometraggio si basa sul Mito della Caverna di Platone, ma anche su narrazioni letterarie e cinematografiche anni Ottanta, come “Stranger Things” e “It”, in cui i temi psicologici dell’infanzia e dell’adolescenza abbondano. Sarà dunque un prodotto che affonda le mani sia nella filosofia che nella psicologia?
Quello che ci auguriamo è che il risultato finale coinvolga e intrattenga gli spettatori. Per noi il Cinema è un mezzo per raccontare storie coinvolgenti che arrivino al pubblico più ampio possibile. E per attuare al meglio la narrazione cerchiamo di “fare nostri” tutti gli elementi che possono aiutarci. In questo caso parallelismi con la filosofia antica e riferimenti alla psicologia. Saranno elementi presenti e su cui costruiremo il nostro intreccio, ma alla fine anche se il pubblico non li noterà andrà benissimo. L’importante è che lo spettatore si immerga nella storia.
Un lavoro che attinge dalla cinematografia anni Ottanta e dalla tradizione Crime, ma coglie anche gli spunti dell’horror d’autore moderno. Questo esprime appieno la vostra cultura sui film classici e anche la vostra spinta innovativa nella sperimentazione, ma al di là delle scelte tecniche e stilistiche, quali sono le intenzioni dietro a questa realizzazione?
Fare un bel film. Emotivamente potente, fortemente cinematografico e con una riflessione di fondo sul dove ci abbiano portato certe promesse fatteci dai dorati anni ’80 (in cui siamo cresciuti).
“Twinky Doo’s Magic World” parla di un gruppo di rapinatori che si rifugia nel magazzino del parco di divertimenti da cui il film prende il titolo, dopo che il loro colpo non è andato nel verso sperato. Hanno con sé in ostaggio un impiegato del parco e la polizia li sta assediando. Ma il pericolo più grande non è la polizia che li sta braccando, bensì qualcosa che si trova lì con loro. Twinky Doo, lo scoiattolo-mascotte del parco compare ovunque nel magazzino dove si trovano, una visione inquietante e dal sapore allucinatorio che riporta tre dei protagonisti (Selva, Mara e Pluto), amici fin dall’infanzia, a fare i conti con i demoni del passato.
Un’unica location, una combinazione tra le più moderne tecniche di ripresa e soluzioni old-school, una fotografia che si evolve con la narrazione e una colonna sonora moderna, che strizza l’occhio alle sonorità anni Ottanta. Cinque attori in scena: Guglielmo Favilla (“Il Nome della Rosa”, “I Delitti del Bar Lume”, “Tutti i soldi del mondo”, “Smetto quando voglio”), Luca di Giovanni (“In arte Nino”, “The Start Up”, “The show must go off”, “Stai Serena”), Alex Lucchesi (“Eaters”, “Zombie Massacre”, “Alienween”, “Aldo Moro”, “Piano 17”, “Non c’è più niente da fare”), Fiorenza Pieri (“Il mattino ha l’oro in bocca”, “Beyond Love”, “Don Matteo”, “Tutto può succedere”) e Maurizio Tesei (“Lo chiamavano Jeeg Robot”, “Il Contagio”, “2047: Sight of death”).
Francesca e Alessandro, lo screenplay è vostro, come avete costruito la psicologia dei personaggi attraverso i dialoghi e quali caratteristiche della personalità e della storia di vita di ognuno volevate che emergessero principalmente?
Siamo partiti da personaggi o caratteri reali, basandoci su dinamiche che conosciamo. Proveniamo da una città di provincia e siamo cresciuti in quartieri popolari. Abbiamo visto da vicino quanto sia facile partire dal vivere una condizione di disagio e sconfinare nel crimine. E in qualche modo abbiamo cercato di raccontarli. Poi ovviamente c’è anche molto di romanzato. Ma di base ci piace attingere dalla realtà. Quello che ci interessa sempre, nei nostri lavori, è restituire l’umanità dei personaggi, fare in modo che certe vicende, anche se di fantasia, entrino in risonanza con ciò che ci circonda. È il pilastro che ci guida nella scrittura.
Quanto di voi c’è nei personaggi che avete costruito e da cosa nasce questo soggetto così particolare?
I personaggi sono un mix di caratteri provenienti da persone reali, fiction romanzata e certamente anche qualche lato del nostro carattere. Pensiamo che sia un meccanismo normale per chiunque scriva: si crea un personaggio, magari partendo da qualche spunto reale, ma poi lo si valuta rapportandolo a sé. Tramite questo confronto fra autore e personaggio si definisce il carattere di quest’ultimo che alla fine, inevitabilmente, avrà assunto un’identità propria.
Il soggetto nasce circa dieci anni fa da noi due e Guglielmo Favilla, che all’epoca era il terzo membro del team creativo. Assieme abbiamo scritto e diretto i nostri primi tre lungometraggi (“Mandorle”, “N.A.N.O.”, “Kiss me Lorena”) e Twinky Doo doveva essere il quarto. Nacque con l’idea di essere un horror a basso budget, pochi personaggi in uno spazio chiuso. Le tematiche erano ispirate a fatti dell’epoca, soprattutto il movimento no-global che si respirava nella prima metà degli anni 2000. Il progetto rimase nel cassetto per vari motivi, ma due anni fa l’abbiamo ripreso in mano e ci siamo resi conto che poteva essere ancora attuale.
Pensate che lo spettatore possa cogliere la psicologia dell’autore visionando il suo lavoro?
Se non proprio la psicologia dell’autore, sicuramente si possono scorgere certi sentimenti del momento. Probabilmente un’eco delle sue emozioni riguardo la storia, o del momento in cui ha filmato certe sequenze. Questo può emergere a partire da piccoli dettagli: un’angolazione di macchina, la scelta di un determinato punto di ripresa, i movimenti adottati. Cose piccole, invisibili ai più, ma che pensiamo arrivino allo spettatore, anche se solo a livello emotivo subliminale. A saperle scorgere, raccontano molto delle varie personalità che lavorano all’opera.
L’ho già confessato in un precedente dialogo con Astutillo Smeriglia su questo sito. Ho un problema con le persone vestite da pupazzi: mascotte di squadre americane, di parchi di divertimenti… appena ne vedo una vengo colta da una risata irrefrenabile. Sono poche le cose che trovo divertenti a tal punto da farmi ridere di gusto, anzi, questa forse è l’unica. Non mi chiedo perché, in fondo ridere è una cosa positiva, qualunque ne sia la causa. Devo ammettere, quindi, che con me l’effetto crime-horror-drama del vostro cortometraggio promozionale ha vacillato un po’ ogni volta che Twinky Doo è comparso sulla scena. Questo aspetto “comico” emerso dalla visione è assolutamente accidentale e del tutto personale, ma mi ha fatto pensare che molti film di genere horror, soprattutto i B-movies, hanno spesso nella loro struttura dei cliché e dei temi ricorrenti, quali il sesso ad esempio, o delle parti quasi esilaranti o simil-demenziali. Ci sarà qualche cliché horror in “Twinky Doo’s Magic World”?
Più che di “cliché” parleremo di quella discrepanza che c’è fra il voler raggiungere un obiettivo (fare un bel film, fare paura, fare piangere, etc.) e ottenerne un altro completamente diverso e inatteso (fare un pessimo film, fare ridere, fare annoiare). Alcuni B-movies hanno questa discrepanza, dettata magari dall’incapacità degli autori o dalle condizioni in cui lavorano: pochi soldi, pochi mezzi e poco tempo possono portare a risultati di quel tipo. Ma non è una prerogativa solo dei B-movies; ci sono tantissimi film considerati di classe superiore che incappano in questo effetto. Mentre viceversa ci sono film di serie B efficaci, forti del talento – anche artigianale – con cui sono stati realizzati.
Sesso e comicità hanno molti elementi di contatto con l’horror (la dicotomia Eros-Thanatos, le reazioni istintive, l’accumulo e il rilascio della tensione) quindi storicamente sono stati spesso accostati nei film. Ma non sono sempre cliché dagli esiti trash, anzi possono essere ottimamente eseguiti. Pensiamo agli horror-comici di Sam Raimi o a certi film di David Cronenberg. Tutto sta nel come vengono messi in scena, un misto di bravura e consapevolezza da parte degli autori. Poi ovviamente c’è chi fa del trash volontario, ma quello è un problema di un certo pubblico che gradisce la monnezza e trova chi è disposto a dargliela.
Il corto-pitch ha ottenuto già molti riconoscimenti: il premio Sky Atlantic, il premio “Best Pilot” al Berlin Web Fest 2018, il premio “Best Horror” al Genre Celebration Festival di Tokyo 2018, il premio per il miglior montaggio allo ShorTS International Film Festival 2018. Cosa vi aspettate dal pubblico e dalla critica, quando la versione lungometraggio verrà realizzata e diffusa? Che cosa pensate del rapporto che pubblico e critica hanno con i film, attualmente?
Innanzitutto ci auguriamo di farlo quanto prima questo film! Dopodiché si vedrà cosa ne penseranno pubblico e critica. Di solito cerchiamo di non prevedere mai questi aspetti, ma ci concentriamo sul fare al meglio il film che vorremmo vedere noi stessi.
Pubblico e critica ci pare che abbiano un rapporto molto più forte col Cinema rispetto ai tempi passati. Probabilmente grazie al web. Gli spettatori appassionati sono molto più presenti nel dibattito pubblico e il confine fra critica e opinionismo si è parecchio assottigliato. Se da un lato questa cosa è un bene perché denota un pubblico maggiormente attivo, dall’altro forse indebolisce il ruolo del critico, ossia qualcuno di competente in grado di gettare una luce inedita sul film.
Di certo c’è che notiamo molta ignoranza in fatto di artigianato cinematografico: quasi tutti parlano dei significati, ma nessuno si sofferma sulle strategie con cui i cineasti “consegnano” questi significati. E per i cineasti più bravi il contenuto spesso è rappresentato dal mezzo stesso. Non saper leggere questi aspetti impoverisce la lettura del film, e infatti abbiamo l’impressione che molte volte il pubblico non capisca la bellezza di certi film. Si tratta di lacune nella comprensione del linguaggio audiovisivo.
Con i video sul nostro canale cerchiamo di dare un contributo per colmarle queste lacune, condividendo il piacere del Cinema.
Cosa vedete nel futuro de “I Licaoni”?
Twinky Doo e didattica, sia online che offline, con corsi e workshop che teniamo in giro. Un’espansione del nostro Cinema Show. Per il resto, ci aspettiamo l’inaspettato.