Anteprima dal set della nuova serie TV “Il nome della Rosa”: intervista all’attore Guglielmo Favilla
Un artista poliedrico, Guglielmo Favilla, livornese DOC, sempre in viaggio e sempre pronto a nuove scoperte e nuove sfide professionali. Actor, writer, director, si divide fra il cinema (“Fino a qui tutto bene” di Roan Johnson, “Tutti i soldi del mondo” di Ridley Scott, “Una questione privata” dei fratelli Taviani, “Smetto quando Voglio” di Sydney Sibilia), le serie tv (“I delitti del Bar Lume”, “1992”, “L’ispettore Coliandro”, “I Liceali”, “Crimini”) il teatro (tra i lavori più recenti “Odio Amleto” con la regia di Alessandro Benvenuti, “La Commedia di Orlando” a fianco di Isabella Ragonese, “Gli Ebrei sono Matti”, pluripremiato spettacolo di e con Dario Aggioli), il doppiaggio (è il doppiatore di riferimento di Astutillo Smeriglia, autore vincitore di due Nastri d’Argento con i corti animati “Il Pianeta Perfetto” e “Training Autogeno” e candidato al David di Donatello 2013 con la serie animata “Preti”). Attualmente sta girando una serie tv tratta dal libro di Umberto Eco “Il nome della rosa”, a fianco di grandi attori internazionali, tra cui John Turturro.
Ora sei anche un intervistato di Psychofilm Guglielmo, sei contento che alla fine ce l’abbiamo fatta? Dopo aver mandato in tilt gli smartphone siamo riusciti finalmente a fermarci, sederci e conversare. Mi sembra quasi un miracolo.
Ce l’abbiamo fatta. Siamo qui con Psychofilm, finalmente. Abbiamo mandato in tilt gli smartphone perché io non mando messaggi vocali, ma mando audiolibri, quindi grazie della pazienza Laura.
Partiamo dalla fine, o meglio, dalla tua ultima sfida artistica. Stai girando una nuova serie, tratta dal libro di Umberto Eco “Il nome della rosa”. Ho amato molto il film omonimo, che tra l’altro è stato diretto da uno dei miei registi preferiti, Jean-Jacques Annaud, e sono felice che l’Italia si stia ultimamente cimentando sempre di più con il mercato internazionale, attraverso la produzione di serie di qualità. Reciterai a fianco di John Turturro (nel ruolo interpretato da Sean Connery nel film di Annaud, Guglielmo da Baskerville) e a Rupert Everett (nel ruolo dell’inquisitore Bernardo Gui). Tu interpreterai Venanzio, e non è spoiler dire che morirai, vero? La storia è conosciuta. Cosa ci puoi dire che non sia ancora top-secret su questa esperienza in corso?
Sì, interpreto Venanzio e non è spoiler dire che morirò, dato che la storia è conosciuta ormai da moltissimi lettori e cinefili. Le riprese sono iniziate a metà gennaio e stiamo ancora girando, ma vi posso anticipare che la serie uscirà nel 2019 e verrà trasmessa sulla Rai. Si tratta di un progetto molto importante, di produzione tedesca e italiana e con un cast internazionale: John Turturro, Rupert Everett, Sebastian Koch, Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi (“Romanzo criminale), Richard Sammel (“Bastardi senza gloria” “La vita è bella”, “Casino Royale”, ecc.), James Cosmo (“Troy”, “Le cronache di Narnia”, “Trainspotting”, “Braveheart”, per citare alcuni dei film in cui ha lavorato), Fausto Maria Sciarappa (“Il codice Da Vinci” e “Inferno”, “La ragazza del lago”), Max Malatesta, Maurizio Lombardi.
La serie è diretta da Giacomo Battiato, bravissimo e solido regista con tanta tv e cinema di qualità alle spalle, ed è un’operazione televisiva molto attuale e accurata. Il romanzo di Umberto Eco, da cui è tratta, viene sviscerato in tutta la sua complessità, in maniera molto più dettagliata rispetto al film di J.J.Annaud, dato che il tempo di un lungometraggio è molto più breve di quello che abbiamo noi a disposizione in più puntate. Con una serie hai modo di esplorare un libro a fondo, di connotare meglio i personaggi, di svilupparli maggiormente. Il cinema rimane un’arte unica, ma nell’arco di un’ora e mezza, due ore, cercare di raccontare un microcosmo così ricco è più difficile; la serie permette un’estensione e un respiro che magari al cinema non puoi avere o a cui puoi arrivare in altri modi.
Annaud fece un grande lavoro, ma la sua fu una trasposizione più libera, che Umberto Eco non amava particolarmente, molto favolistica, giocata sul grottesco e sul caricaturale rispetto ai personaggi; come Jorge, il vecchio frate cieco, o Salvatore, interpretato da Ron Perlman, grandissimo attore che ha creato parti incredibili giocando proprio sul suo aspetto particolare.
Quello che ha fatto Giacomo Battiato, insieme a sua moglie Anna Zaneva, direttrice di casting strepitosa, è stato un lavoro lungo ed estremamente accurato sulla scelta dei personaggi, a partire dal protagonista della serie: Sean Connery era, nel film del 1986, la cosiddetta “quota hollywoodiana”, un attore di bell’aspetto, magnetico, affascinante, carismatico; John Turturro è altrettanto magnetico, altrettanto carismatico, ma dall’aspetto fisico più da uomo comune, con un viso più scavato, il naso aquilino. Il suo aspetto è più fedele alla descrizione che Umberto Eco dà di Guglielmo da Baskerville nel suo libro, rispetto a quello del protagonista del film di Annaud. Anche la scelta del grande Stefano Fresi è interessante: Stefano interpreta un Salvatore tutto nuovo rispetto a quello di Ron Perlman, con una storia, un contesto, delle caratteristiche che sfruttano al massimo le sue doti attoriali, producendo una sua completa trasformazione in questo ruolo.
Vedremo Dolcino, interpretato da Alessio Boni (“Arrivederci amore ciao”, “La bestia nel cuore”, “The tourist”), e i Dolciniani, e scene di battaglia che nel libro vengono solo menzionate.
Il mio personaggio, Venanzio, è la seconda vittima della storia, quella intorno a cui si sviluppa la maggior parte dell’indagine e attraverso la quale si arriverà alla scoperta del plot. Benché io muoia presto, mi hanno regalato delle sequenze che nel film erano appena accennate, e il mio personaggio torna spesso sotto forma di flashback. Insomma, come dicevo prima, il tempo maggiore a nostra disposizione rispetto a quello cinematografico ha permesso uno sviluppo della trama e dei caratteri più ampio ed approfondito.
Mi allaccio all’ultima parte del tuo racconto, per una parentesi psicologica, che non manca mai su questo sito. Voi attori siete spesso chiamati ad affrontare prematuramente alcune tappe esistenziali. Vi truccano e vi fanno diventare più vecchi, vi fanno morire, sezionano i vostri corpi… Com’è psicologicamente vedersi in situazioni lontane dall’età anagrafica o in stati in cui le persone possono solo immaginarsi ma non osservarsi, come ad esempio da morti? Ho visto alcune immagini macabre che mi hai inviato dal set della serie in via riservata, in cui sei sul tavolo dell’autopsia con gli organi in vista o ricoperto di sangue, e ho pensato subito a come deve essere impattante a livello psichico vedere se stessi in quei modi.
Fare l’attore è un gioco continuo, è uno dei motivi, credo, per cui le persone scelgono di fare questo lavoro. È un mettersi in discussione, è un esorcizzare le nostre paure recitandole, affrontandole direttamente, facendo personaggi lontani da noi.
Essere attore significa giocare sempre, avere la possibilità, ogni volta, di tratteggiare qualcosa che può essere più vicino o più lontano da te. Puoi fare un pugile, un sub, un golfista, e talvolta si tratta di imparare cose che tu nella vita non hai mai imparato, anche se purtroppo in Italia questo non è facile, perché a volte non c’è il tempo, a volte non ci sono i soldi, quindi accade che ti dicano “vai, fai quello” e ti “buttino” sul set.
Siamo tutti attori, fin da bambini. Le bambine possono giocare a fare la maestra o la combattente guerriera con la spada, il bambino gioca a fare il cowboy, superman o il cuoco. Il gioco ci appartiene fin da piccoli, poi qualcuno di noi lo perde, o a qualcuno rimane dentro magari, ma non ha modo di svilupparlo. Un attore lo sviluppa per tutta la vita, e questo è un grande privilegio.
Guglielmo Favilla – Spot della Wind
Una delle ragioni per cui amo questo lavoro è la possibilità di vedermi trasfigurato, un po’ anche per il lavoro che faccio io stesso sul mio corpo, cambiando magari un po’ la pettinatura, la camminata o il modo di parlare, per raccontare il mondo che sta dietro ai miei personaggi.
Si dice che non esistono piccoli ruoli, esistono piccoli attori, per cui, anche in un ruolo dove compari per due minuti, puoi raccontare tantissimo del passato e della personalità di un personaggio, con pochi gesti, con uno sguardo.
I grandi caratteristi americani sono dei maestri in questo e una volta lo eravamo anche noi, fino almeno agli anni Settanta, quando anche nel cinema americano approdavano gli antieroi, gli “uomini comuni”, come Al Pacino, Hoffman, De Niro, Christopher Walken, e non c’era più la fase divistica degli anni precedenti. Gli americani, anche con i comprimari, i caratteristi, termine che non deve essere mai dispregiativo, hanno sempre fatto, e fanno tuttora un lavoro di grande livello.
Nel panorama americano anche i caratteristi sono attori. Un maestro assoluto in questo lavoro sui piccoli ruoli è Michael Mann, che riesce a elevare a grandi personaggi anche chi interpreta parti molto brevi. Lui fa un lavoro incredibile, non solo sui volti, e ti lascia la voglia di scoprire il passato o il destino dei più piccoli personaggi che compaiono sullo schermo.
Oggi in Italia, un lavoro simile lo fa Matteo Garrone e lo si può notare dalla visione del suo ultimo lavoro “Dogman”, ma anche dai precedenti (“Gomorra”, ad esempio). Garrone fonde perfettamente professionisti e non professionisti, maschere e attori che si trasfigurano, e fa un lavoro sulle comparse pazzesco, facendole diventare volti recitanti anche se non dicono nulla. Non mette mai una faccia sbagliata nei suoi film e il suo è un utilizzo quasi pittorico dei volti. Anche chi dura 20 secondi sullo schermo rimane impresso nella memoria dello spettatore.
Guglielmo Favilla sul set di “Tutti i soldi del mondo”, di Ridley Scott
Tornando alla trasformazione fisica, al trovarsi ad interpretare personaggi di età diverse dalla propria o a essere ucciso, per finzione, ma in modo sempre estremamente realistico, io sono morto molte volte sul set. In fondo, è una cosa che si fa fin da piccoli, quella di fingere la propria morte; i bambini, quando fanno la guerra, per finta, esorcizzano la morte, giocano a morire nella maniera più fantasiosa possibile, ora inciampando, ora decapitandosi, ora sparandosi. Nel cinema tutto questo è ancora più reale, grazie al trucco, alle sacche di sangue finte; quando muori in una sparatoria il rumore degli spari c’è davvero, quando ti accoltellano ti ritrovi davvero zuppo di sangue.
Turturro, nei primi giorni di riprese, a gennaio, mi ha detto: “Ah, la vita dell’attore. Quante volte sono morto nei film”. Lo faceva ridere che al mio primo giorno di riprese io già morivo.
Al cinema o in tv, non si gira necessariamente in ordine cronologico, quindi può darsi che tu muori il primo giorno e nei giorni dopo sei di nuovo sul set a interpretare altre scene. Spesso i colleghi scherzano su questo, quando ti vedono arrivare: “Ma non eri morto”? Questa battuta è un grande classico sul set. Turturro, persona straordinaria, mi ha citato in quell’occasione Eleonora Duse, che si chiedeva: “Sono morta talmente tante volte nella mia carriera di attrice teatrale… come sarà quando morirò davvero? Mi sembra di aver finto l’esperienza della morte talmente tante volte, averci giocato sopra, che ora mi chiedo: come sarà quando arriverà il momento”? Ecco, l’attore, attraverso le sue morti finte, esorcizza l’idea della morte che verrà e allo stesso tempo vive infinite rinascite.
Per questa serie è stato fatto un calco del mio corpo (di cui ti ho mandato le foto “top secret”), dalla testa al busto, per replicare il mio cadavere che viene estratto dal sangue (Venanzio viene gettato nel sangue di maiale). Questo manichino è stato utilizzato solo per il take dove Venanzio viene bagnato da una secchiata d’acqua per pulirlo dal sangue, in quanto all’impatto con l’acqua le persone tendono a muovere istintivamente gli occhi e un cadavere deve ovviamente rimanere immobile. Subito dopo questa scena c’è il change con i vari dettagli, e quello che viene portato via sono io, in carne ed ossa. Ecco, vedere come tu hai potuto fare dalle foto, il lavoro straordinario che questi grandi artisti hanno fatto sul calco, la replica perfetta della mia faccia da morto, è un’esperienza ancora diversa dall’interpretare un morto. In quella situazione non sei tu che fai il morto ma tu che ti vedi morto, e questa è un’esperienza molto più inquietante. Ti vedi sporco di sangue e pensi: “Guglielmo, questo sei tu dopo un frontale con un tir”.
Devi lavorare tanto di fantasia quando devi immaginare cosa provi magari morendo avvelenato, cosa prova chi è in fin di vita, cosa prova uno che sta per uccidere un altro… ma in questo caso c’è un involucro che non sei tu, lo guardi e dici “Dio mio, quello potrei essere io”. Vedi questa replica tua, che non ha emozioni, sta soltanto lì a sostituirti per un ciak. Un’esperienza catartica ma assolutamente straniante.
Volevo chiedere se potevo portare a casa quel pezzo di me, per fare qualche scherzo clamoroso, ma purtroppo nel cinema certe cose costano e credo rimarrà alla produzione o a un museo delle cere da qualche parte in Transilvania.
Quale tra gli aneddoti divertenti che mi hai raccontato su questa esperienza vuoi condividere con i nostri lettori? Ad esempio quello relativo alla scelta del tuo attuale look è condivisibile?
Il mio attuale look è un caso nel caso. Ho voluto fare la tonsura reale, anziché usare una calotta, per calarmi maggiormente nel personaggio forse, o forse perché quando sono arrivato sul set avevo Turturro accanto che mi incoraggiava. Non ho pensato, in quel momento, che le riprese sarebbero potute durare anche molti mesi. Sto parlando con te e siamo quasi a fine maggio, e ho ancora la tonsura da monaco. Ovviamente la mia compagna è molto felice di questo…
La mia è stata una scelta abbastanza condivisa però, dato che a Roma mi è capitato più volte di vedere altre persone con il mio stesso look. Quando ci incontriamo, ci diciamo: “Anche tu ne Il Nome della Rosa”? “Certo”! Quando accade ci diamo il cinque, perché ci sono più di 80 comparse con questi capelli.
Vado in giro con il berretto dal 15 gennaio, e quando la serata è fiacca e ci sono amici che non lo sanno o persone che non conosco urlo “Festa!”, e mi tiro via il cappello. Insomma, come ho detto prima noi attori non smettiamo mai di giocare e di metterci in gioco.
Aspettiamo con ansia l’uscita di questa serie il prossimo anno, e ti ringrazio Guglielmo per questa fantastica anteprima dal set che hai regalato a “Backstage”. Non abbiamo ancora finito, perché a breve usciremo con la seconda parte della tua intervista, per parlare della tua esperienza con Ridley Scott, de “I delitti del Bar Lume”, e di tutto ciò che rimane di questo nostro approfondito confronto. Abbiamo ancora molte “perle” da elargire agli psicocinefili.
Grazie a te Laura per questa bella chiacchierata. È probabile che da qui alla seconda parte dell’intervista sarò morto qualche altra volta; nel caso, ti aggiorno con un nuovo “audiolibro” via whatsapp.