Da “I delitti del Bar Lume” a Ridley Scott: intervista all’attore Guglielmo Favilla
Siamo partiti controcorrente nel conoscere Guglielmo Favilla, per la precisione dal suo ultimo lavoro, la serie “Il Nome della Rosa”. Lo abbiamo fatto attraverso un’intervista pubblicata su questo sito lo scorso maggio, densa di anticipazioni e riflessioni psicologiche. Avevo, però, ancora molte cose da farmi raccontare da questo bravo attore livornese,che ha girato molti film e fiction di successo, e quindi rieccolo qui con noi, come promesso, per fare ancora un po’ di storytelling.
Bentornato Guglielmo. Prima della tua recente esperienza televisiva con attori internazionali, di cui abbiamo parlato nella precedente intervista, ne hai fatta un’altra di altrettanto prestigio. Hai lavorato con il grande Ridley Scott, recitando la parte di “Piccolino” nel film “Tutti i soldi del mondo”,che parla del rapimento di Paul Getty Jr. Come sei approdato al grande cinema americano?
Nella maniera più banale possibile: con un regolare provino, o meglio un “self tape” a distanza. Sono stato contattato dalla mia agente e mi ha detto che la produzione cercava un attore per un piccolo ruolo di sole due “pose” (due pose di solito corrispondono a due giorni di lavoro): avrei dovuto interpretare la parte di un carceriere in Calabria, uno dei due rapitori di Paul Getty Jr., parlando con un inglese italianizzato, una sorta di slang.
Sono andato a girare Il provino video dal mio amico Federico Sfascia, regista di enorme talento; ero ben attrezzato, avevo anche un fucile finto e mi son messo un minimo di abbigliamento adatto. La scena tra l’altro prevedeva un passamontagna, ma ovviamente il casting ci aveva richiesto di non indossarlo nel self tape, dato che avevano bisogno di vederci in faccia. Ho inventato qualche sporcatura tra italiano e inglese, il testo ti portava in questa direzione, e ho provato. Tra l’altro questo piccolo ruolo per cui mi ero proposto è andato a Nicolas Vapodiris. Si trattava della scena in cui l’ostaggio vede in faccia uno dei rapitori mentre lo porta a urinare nel campo e l’altro lo minaccia con la pistola perché si rende conto che è stato visto in faccia ed è compromesso.
Ho aspettato circa due settimane dopo l’invio, poi mi hanno comunicato che ero stato selezionato, ma per un ruolo più ampio. Ridley Scott prende il copione e lo usa un po’ come un canovaccio, a lui interessa la parte visiva e si presta molto all’improvvisazione e all’aumento di scene; se lui pensa che tu sia idoneo per altre sequenze, ti mette anche in altre sequenze. Infatti le mie due pose sono diventate quasi otto, una settimana di lavoro.

“Tutti i soldi del mondo” è stato al centro di una vicenda particolare, quella dello scandalo sessuale che ha coinvolto l’attore Kevin Spacey. Spacey interpretava il ruolo di Paul Getty Sr., ma a poche settimane dalla distribuzione della pellicola è stato tolto dal cast e sostituito da Christopher Plummer. La sostituzione ha reso necessario girare nuovamente le scene che riguardavano questo personaggio. So che nella storia del cinema ci sono state situazioni simili, causate dalla morte improvvisa di attori durante le riprese, ma non so se sia mai successo di dover gestire un caso come quello di cui stiamo parlando.
Non risulta neanche a me, questa è una cosa che credo non abbia avuto precedenti. Quando ho appreso la notizia della sostituzione ero in tournée con Ugo Pagliai, Gabriel Garko e Paola Gassman per “Odio Amleto”, una commedia contemporanea molto divertente (era il nostro secondo anno in giro per l’Italia), ed eravamo a Gallarate. Siccome a ottobre era scoppiato lo scandalo Kevin Spacey, mi interrogai sulla sorte del film… Il trailer era già uscito a metà settembre e in esso c’era ovviamente Kevin Spacey, che tra l’altro era parecchio appariscente, in quanto aveva un trucco molto barocco per interpretare un uomo più vecchio di quasi 30 anni.
Faccio una piccola parentesi: Ridley Scott riesce sempre ad essere potentemente evocativo e talvolta gli piace l’eccesso,completamente (e senz’altro consapevolmente) a discapito della verosimiglianza. Nel caso de “Il Gladiatore”, ad esempio, in cui voleva mostrare che Roma era al suo massimo splendore, ha inquadrato in mezzo ai monumenti delle opere seicentesche del Bernini. Per lui era una cosa simbolica, evocativa, che ricordava che Roma, in una maniera quasi fantascientifica, era avanti a tutti.
Anche questo Kevin Spacey, tutto truccato, superagghindato come appariva nel primo trailer, aveva suscitato molta perplessità.Però anche attesa, dato il suo straordinario talento.
Dopo lo “scandalo” iniziavano a circolare voci: la Sony non sapeva come lanciare il nuovo trailer, poi le voci peggiorarono e si arrivò a quella mattina di novembre, a Gallarate, in cui mi arrivò la conferma che Kevin Spacey sarebbe stato sostituito da Christopher Plummer, (a quanto pare la prima scelta di Ridley Scott).
Mi chiesi anche come sarebbe stato possibile rifare tutto quel lavoro. E i tempi furono in effetti allucinanti: Ridley Scott comunicò la cosa l’8 novembre e due giorni dopo erano già ricominciate le riprese; tutti gli attori avevano dato la loro disponibilità per salvare il progetto. Il 29 dello stesso mese è uscito il nuovo trailer con Christopher Plummer e Ridley Scott avrebbe compiuto ottant’anni il giorno dopo. Sono rimasto basito: questo artista è riuscito a fare, in pochi giorni di reshooting, un piccolo miracolo produttivo.
Prima di sapere la notizia della sostituzione mi sono detto: porca miseria, la prima volta che ho un’esperienza in America il film è travolto da uno scandalo e rischia di non uscire.
L’ipocrisia dello star system è nota (quello americano su tutti) ma molti si sono accaniti su Ridley Scott il quale, per non far perdere il lavoro a circa 800 persone che vi avevano lavorato, ha detto:“Cosa devo fare perché il film non sia bloccato?” Lui era anche co-produttore del film, ma la Sony aveva la distribuzione.
La pellicola si era già giocata qualsiasi chance all’Oscar, nessuna anteprima al Los Angeles Film Festival, era tutto saltato.Quindi era un film che rischiava di cascare nei cestoni degli autogrill a due anni dalla sua realizzazione. Erano state spese delle energie, delle risorse, dei nomi.
L’unica soluzione, gli dissero, sarebbe stata quella di eliminare Kevin Spacey dal cast. Una sfida praticamente impossibile. Ma Ridley Scott l’accettò: tornò alla sua prima scelta, Christopher Plummer, un attore molto più vicino all’età del vero Paul Getty Sr.
Così come trovo surreale e disprezzabile la gogna mediatica e artistica nei confronti di Kevin Spacey, trovo anche ammirevole che Scott abbia lottato per il film: film che comunque, e te lo dico da persona che lo ha fatto, è uscito in sordina e ha risentito di una campagna diffamatoria incredibile. Ridley Scott diventò un bersaglio solo perché per molti benpensanti avrebbe dovuto chiudere il progetto e non far uscire il film.
Come dicevi tu, anche a me vengono in mente degli attori che sono stati “sostituiti” (Brandon Lee o Oliver Reed), perché morti durante le riprese. A Ridley Scott, proprio con Oliver Reed era già successo per “Il Gladiatore”: rimediò con una controfigura digitale e con inquadrature da dietro. Ma questa di “Tutti i soldi del mondo” è stata una vicenda assolutamente senza precedenti, che io sappia, nella storia del cinema.

Come è stato lavorare con Ridley Scott e con attori di fama internazionale come Christopher Plummer, Mark Whalberg, Timothy Hutton, per citarne alcuni?
Per quanto riguarda Ridley Scott non so se mi capiterà ancora una cosa del genere, me lo auguro, però per me è già stato un total inning, un jackpot totale.
Lavorare con gente valida è raro, lavorare con gente valida e che tu stimi è ancora più raro, lavorare con gente valida, che stimi e che oltretutto ha fatto la storia del cinema, di cui tu per primo sei fan, è qualcosa di unico.
Questo lavoro è fatto anche di grandi delusioni, artistiche e non, ma spesso ti regala delle esperienze preziose: assaggiare questo set internazionale con un regista che ammiro fin da piccolo, che mi ha cresciuto, che è nella mia top ten, è una di queste.
Per la critica il film è stato semplicemente il tipico adattamento di una storia italiana vista da occhi stranieri, quindi pieno di forzature e goffaggini. Ma Ridley Scott è un maestro, ripeto, a lui non importa del realismo; è un visionario puro, parte dall’immagine e solo dopo racconta attraverso i dialoghi che non sono mai solamente dialoghi, vengono portati avanti visivamente. Infatti, quando Scott ha una sceneggiatura di ferro fa dei capolavori assoluti (ad es. “The Martian”, “Blade Runner”, “Alien”).
“Alien” era un semplice film di “serie B”, ma con una sceneggiatura quadratissima (su cui avevano messo le mani molte persone, tra cui il grande Walter Hill). Quando invece la sceneggiatura è ridondante, superficiale o semplicemente “sciocca” con i film di Ridley Scott puoi levare l’audio, perché lui ti racconta tantissimo per immagini.
Già solo nella scelta del casting per “Tutti i soldi del mondo” capisci quanto è sbagliato approcciarsi a questo film con la miopia della pretesa di realismo: i primi rapitori siamo io, che sono un toscano, Vapodiris, che è romano, e ci sono altri attori tutti di provenienze diverse. Nessuno è calabrese, e il nostro capo è Romain Duris, quindi un francese che parla calabrese e inglese, un mix folle.
Se conosci un po’ Ridley Scott, se conosci anche il cinema, in qualità di finzione totale, sai che esiste il neorealismo, come esiste l’horror, come esiste la fantascienza, e poi esistono i registi singoli che possono raccontare questi stessi generi. È l’occhio del regista che fa la differenza, l’autorialità. Ciò non toglie che io sia anche critico con il film, ti so dire cosa funziona e cosa non funziona. Ma dopo quello che ho letto e sentito in proposito mi piacerebbe che il giudizio su un film, oggi, fosse un minimo diverso e spostato dalla filologia e dalla verosimiglianza a tutti i costi.
Uno dei più grandi errori che si fanno oggi è andare al cinema cercando di vedere un film secondo i propri codici. Sentendo urtata la propria sensibilità, mancando di cultura, di stimoli, di apertura mentale, si pretende di vedere un film che segue la “sceneggiatura ideale” dello spettatore. Si può partire da un B-movie ed arrivare a Bergman, ma bisogna capire, approfondire; poi si può dire che quella cosa non ci piace, ma non che è brutta. Il qualunquismo, specialmente al cinema, che è l’arte popolare per eccellenza, è un demone che purtroppo colpisce molti fruitori.
Per tornare a Ridley Scott, sul set lui si è dimostrato umanamente fantastico; veniva addirittura chiamato “Zio Ridley”.
C’è una scena, che tra l’altro hanno usato anche a chiusura di tutti i trailer internazionali, in cui io ho il viso completamente coperto da un passamontagna e alzo la pistola: Nicolas Vaporidis accompagna Charlie Plummer (che interpreta Paul Getty Jr.) a urinare e si leva il passamontagna per fumarsi una sigaretta; il ragazzo lo nota e lui si rende conto che si è bruciato, perché lo ha visto in faccia. A questo punto arrivo io, mi metto tra loro due, valuto la situazione, poi alzo la pistola e sparo. Si sente questo sparo a distanza, dunque potrei aver ucciso il ragazzino da come la sequenza è montata; in realtà la storia dice qualcos’altro, ovvero che ammazzo l’altro rapitore, perché si è mostrato in volto e già correva cattivo sangue tra me e lui.
In questa scena i veri protagonisti delle azioni principali erano Vapodiris e Plummer, io arrivavo nel mezzo e avevo questa azione-reazione, non avevo nemmeno battute. C’era una camera dedicata a me, ma le fondamentali, la camera A e la camera B, erano sui due, campo e contro-campo.
Era una delle prime scene che mi vedeva più protagonista ma non ne ero il protagonista, in più avevo la faccia coperta, dovevo recitare con gli occhi. Alla fine di questo ciak, Ridley Scott si è fatto strada, si è avvicinato, mi ha dato la mano e mi ha detto “Thank you” e mi ha fatto il gesto “Ok”, con i due pollici alzati. Poteva non farlo, lo ha fatto, e questa cosa mi ha sciolto come neve al sole.
Su Ridley Scott te ne potrei raccontare molte, ma poi questa intervista durerebbe all’infinito, comunque è stato meraviglioso verso tutti noi che eravamo tesi: io, Nicola Di Chio e Francesca Esposito (bravissimi attori di teatro al loro primo film), e Nicolas Vapodiris che non era al suo primo rodeo ma era anche lui, a suo modo, emozionato.
Il primo giorno di riprese, all’alba, ci hanno messi tutti insieme a Romain Duris, un attore francese strepitoso. Era la scena in cui noi portiamo l’ostaggio al nostro covo, dopo aver guidato tutta la notte un furgoncino; arriva Ridley Scott zompettando; questo anziano, energico e simpaticissimo signore ci chiede perché siamo tutti così seri e ci dice “Have Fun”, divertitevi. Ci ha descritto un’azione complessa e lunga e ci ha detto di stare tranquilli, che la camera ci avrebbe seguiti anche nel momento in cui saremmo entrati nel covo.

Tu entravi nel covo e c’era un sacco di roba, potevi cucinarci lì dentro: c’era un’attenzione incredibile al dettaglio.
Scott è un regista che fa pochissimi ciak, ha tutto il film in testa, poi, invecchiando, secondo me non vuole neanche perdere tempo con il superfluo, e per quanto amante del barocco e dell’eccesso in scena, al massimo fa tre take ed è bravissimo ad ottenere quello che vuole. Ti fa fare subito squadra, ti senti subito parte del quadro, perché lui prima di tutto è pittore e poi regista.
Scott tra l’altro fa degli storyboard pazzeschi, basta guardare quello realizzato per “I duellanti”.
La scena dell’attacco al nostro covo, è di impatto come alcune scene di “Black Hawk Down”, il suo dramma bellico che fu un saggio di regia e di tecnica incredibile. Quel giorno sul nostro set dirigeva le truppe come un direttore d’orchestra. L’attacco della polizia è una scena completamente esasperata, inventata; sembra un’azione di guerriglia, con tutta la crudezza che la contraddistingue. Lui riesce a mettere nei suoi blockbuster hollywoodiani piccole scene di crudezza inaspettata, sanguinosa ironia e un pizzico di cattiveria (anche nei film più “per tutti” come “The Martian” o “Robin Hood”).
Ridley Scott me lo porterò sempre nel cuore, è stata una bellissima esperienza, un piacere e un onore lavorare con lui.
Per quanto riguarda gli attori, ho lavorato a stretto contatto con Romain Duris, che era il mio secondo (io sono il “capo”, ma è lui che stringe amicizia con l’ostaggio). All’inizio si è rivelato un pochino più schivo, poi c’è stata una scena, che tra l’altro non era prevista, dove lui telefonava alla madre del ragazzo e io dovevo stare sullo sfondo. Durante le riprese di questa scena abbiamo avuto modo di interagire, perché eravamo solo noi due. Lui doveva dettare le condizioni della restituzione del ragazzino in cambio di soldi e doveva guardare me, cercando approvazione, mentre io fumavo e lo guardavo e basta.
Duris mi ha chiesto di fargli uno sguardo in un dato momento anziché in un altro, per dargli modo di reagire in una certa maniera, e dopo che l’ho fatto si è sciolto con me. Mi diceva “You’re a good guy, you’re a good guy!”. È stato un bel compagno di lavoro. Mentre con Mark Whalberg e Michelle Williams ho avuto un’interazione minore, prevalentemente al trucco e ai costumi: in scena ci ho interagito da moribondo mentre sputavo sangue, ma erano comunque persone molto tranquille e alla mano.
Quali sono le principali differenze che hai riscontrato tra questa esperienza e quelle italiane?
Gli americani hanno un diverso approccio mentale: non lasciano nulla al caso e fanno un grande lavoro di squadra. Certamente esistono anche da loro le invidie, le ambizioni e le ipocrisie, ma sul set si lavora per sé stessi e per gli altri, soprattutto. In breve: si lavora per il film.
Per esempio, per la scena della telefonata di cui parlavo, c’era Michelle Williams dietro un separé che dava le battute a Duris con la stessa drammatica intensità usata nella scena che la vedeva effettivamente protagonista. Si è rimessa a piangere riuscendo a emozionare anche se non inquadrata.
Noi siamo molto più una razza di attori viziati, bizzosi e costruiti. In America sono tutti più alla mano, quando si lavora si lavora, e questo senso di squadra si sente ed è galvanizzante. In Italia ho visto tanti, troppi attori capricciosi senza averne motivo, altezzosi, che influenzano negativamente l’umore della troupe. C’è poca generosità in questo mestiere.
Certamente è stata anche meravigliosa la controparte italiana, i ragazzi e le ragazze su set, dai runner agli assistenti alla regia, ai costumi. Era proprio un bel gruppo. Molti avevano già lavorato con Ridley Scott e sembrava di stare in una grande famiglia. Poi anche lì ci sono i tempi, le tensioni, il caldo; abbiamo girato a temperature assurde…
Come ti sei approcciato al tuo personaggio dal punto di vista psicologico?
Questo è interessante, perché chi l’ha mai fatto il capo di una gang di tagliagole rubagalline che per la prima volta, dopo aver rubato macchine usate e bestiame si decide a rapire un essere umano? Il mio approccio questa volta è stato molto più per gradi.
La lingua non era la mia, anche se qualche battuta era in italiano. L’uso dell’inglese per recitare l’ho poi dovuto affrontare con “Il Nome della Rosa”, ma quella con Ridley Scott era per me la prima volta e avevo paura di non essere credibile a usare un linguaggio non mio.
Mi chiedevo come avrei fatto a pensare come personaggio se prima ancora dovevo pensare a come parlare, se mi sarei giudicato per primo io su una frase qualsiasi pronunciata male. Quindi il mio lavoro è stato, prima di tutto, sul linguaggio. Nei due mesi dalla notizia che ero stato preso a quando sono iniziate le riprese ho avuto un’ottima dialogue coach, che mi ha preparato, mi ha registrato le battute anche se non erano molte, perché il mio personaggio era più che altro silenzioso-minaccioso.
Mentre mi preparavo non sapevo ancora come mi avrebbero vestito, la cosa è andata costruendosi a tasselli.
Come ti avevo detto nella prima intervista a me aiutano tantissimo questi particolari. L’abbigliamento, il trucco, il modo in cui porti i capelli e la barba, ti aiutano a plasmare la fisicità. Io sono molto portato a immaginare e giocare in una situazione: se mi dicono che devo combattere con un drago gigante, e di far vedere che il drago lo vedi davvero, sono il primo a buttarmi. L’abbigliamento però mi aiuta tantissimo in questo, le scarpe di un certo tipo, i pantaloni, le bretelle, un’arma o niente armi, mille altre cose. In questo caso ero il boss di un gruppo di scalcagnati rapitori.
Quindi il mio primo lavoro è stato sul linguaggio, anche se poi sul set ci hanno detto di parlare in italiano, perché tanto tra noi avremmo dovuto comunicare nella nostra lingua. E lì c’è stato un doppio salto mortale, perché ho dovuto lavorare improvvisamente sul calabrese.
Se non te lo dicono per tempo e devi parlare dall’inglese all’italiano esiste una forma di adattamento, come quando leggi un libro tradotto; una parola in inglese è molto più sintetica, in italiano devi trovare un modo per non essere ridondante o didascalico.
“Devi stare molto attento!”, puoi dire, se una battuta come avevo io era “Don’t question me”, che significa non mi contestare, non mi contraddire; però in quel caso doveva essere una cosa più tagliente.
Io minacciavo il mio sottoposto, Vapodiris, che si stava lamentando delle condizioni, e dovevo dirgli “Non mi contraddire”, che è un po’ troppo letterario per essere pronunciato da un capo di una cosca della‘Ndrangheta. Quindi c’è stato un lavoro di adattamento sul set, aiutato dagli abiti e dal trucco.
Ridley Scott ci diceva: pensate che vi portate dietro questo sudore, questo puzzo, che ormai siete come incancreniti, c’è questa atmosfera per cui siete ricoperti di mosche, come se foste gente che ormai è marcita anche fuori, in un certo senso.
Dopo la prima fase di preparazione mi sono lasciato guidare, la psicologia del mio personaggio si è creata sulle mie azioni. Mi dicevano “soffia nel fucile in questo modo”, “guarda quella cosa”.
C’erano un sacco di piccole scene nel film, che non credo siano poi state montate tutte, che facevano vedere la vita dei personaggi; piccoli assaggi apparentemente innocui per la drammaturgia, ma che a noi attori servivano tantissimo: il modo di fumare, le cose da mangiare, ecc. Ridley Scott è bravissimo a darti questo background e a creare questo contesto in cui si muovono i personaggi.
Alla fine sono riuscito a parlare perfino in calabrese, imitando un mio amico di Cosenza, a dare una voce al personaggio diversa da quella che mi ero preparato in inglese, e grazie ai costumi e all’atmosfera che si era creata, a dare una movenza, uno scopo al mio ruolo. Queste sono state cose che ho vissuto lì, nel qui ed ora; sul risultato finale poi il cervello si azzera, vivi il momento e poi ti sembra di aver vissuto una vita parallela di cui ti ricordi sì e no, perché sei concentratissimo in quello che fai.
In genere non mi piaccio quando mi rivedo, cerco di non rivedermi sul momento, mi sento molto a disagio; posso capire, però, di aver fatto un buon lavoro quando mi riguardo, mesi e mesi dopo, nel prodotto finito, al cinema, e non mi riconosco. Ho davvero fatto quello? Ho bevuto in quel modo lì? Mi sono mosso così? Se c’è stata questa totale amnesia, e mi rivedo con occhi nuovi, allora vuole dire che ho lavorato bene. Parlo del cinema, in teatro ci sono altri linguaggi.
Però, ti ripeto, il cinema è un lavoro di squadra, io ho ottenuto tutto questo grazie al contesto generale in cui mi sono trovato a operare e alla valorizzazione che il regista ha dato al mio personaggio. Ridley Scott mi ha fatto sembrare alto, mi ha fatto sembrare minaccioso…
La psicologia è stata costruita attraverso vestiti,oggetti, atmosfera, piccole indicazioni, piccoli assaggi di back story. Arrivavi lì e trovavi una macchina d’epoca, quindi cambiava il tuo atteggiamento: fammi vedere che è tua, che ci hai fatto delle cose con questa macchina, ti diceva il regista; oppure ti diceva che quella persona era tua moglie, improvvisamente, senza che la cosa fosse in sceneggiatura.
Creare questi piccoli pezzi di storia alle tue spalle ti spinge a trovare un’idea sul momento dove, se hai un ottimo collega,un contraltare che ha voglia di mettersi in gioco come te, puoi creare delle piccole gemme recitative.
Grazie per questo meraviglioso racconto sul backstage di “Tutti i Soldi del Mondo”. È stato come vedere un film dietro al film, come essere lì sul set a provare ciò che tu hai provato.
Nella scorsa intervista abbiamo parlato del tuo presente, dato che mentre ci davi le anticipazioni sulla serie “Il Nome della Rosa”, che uscirà nel 2019 sulla Rai, la serie la stavi girando. Ora abbiamo risalito la corrente, parlando della tua precedente (quindi passata) esperienza con Ridley Scott. Ci rimane da parlare del futuro, per chiudere il cerchio. So che state girando la nuova serie de “I Delitti del Bar Lume”, un prodotto che ha avuto una grande audience. In questa fiction tu reciti il ruolo dell’agente Govoni: puoi parlarci di questo personaggio e dei retroscena di questa esperienza attoriale, che si sta ripetendo da alcuni anni?
La mia esperienza ne “I Delitti del Bar Lume” è nata quasi per caso. Avevo partecipato alla primissima stagione, che fu girata nel 2012, in un “ruoletto” che, con il senno di poi, per fortuna fu tagliato; recitavo la parte di un medico che interagiva con il protagonista Massimo Viviani, interpretato da Filippo Timi, in una scena assolutamente accessoria. Era stata una giornata di lavoro per me, e fui tagliato, per quanto accreditato nei titoli di coda, e inizialmente ne fui dispiaciuto. Questo però mi ha permesso, due anni dopo, di rientrare nel cast con un altro piccolo ruolo, che all’epoca era accreditato solo come “poliziotto guardiola”, non aveva ancora un nome (Govoni).

Alla regia della serie c’è il mio amico Roan Johnson, con cui ormai siamo sodali da anni, dai tempi del Centro Sperimentale fino agli esordi di entrambi nel cinema, e con il quale ho girato, tra le altre cose, il film “Fino a qui tutto bene”, che racconta la storia dell’ultimo weekend di convivenza di cinque studenti fuori corso che devono lasciare la casa che hanno condiviso fino a quel momento.
Quando Roan è passato a “I Delitti del Bar Lume”, ha proposto gente che aveva già conosciuto e che aveva avuto modo di apprezzare. E così è andata: sono entrato in punta di piedi, poi il poliziotto che interpretavo ha avuto fortuna e ha preso sempre più spazio. Il mio personaggio è assolutamente inventato, non esiste nei libri; c’è tantissima libertà nella versione televisiva.

Ogni anno ormai sappiamo che a fine maggio – inizio giugno parte questa avventura folle a Marciana Marina (ormai ribattezzata “Pineta del Bar Lume”). Per me è stata l’occasione di trovarmi nuovamente con amici e professionisti con cui avevo già lavorato, ma anche incontrare nuovi splendidi compagni di viaggio.
La serie è molto seguita: spesso mi fermano e mi dicono “Ma tu sei Govoni!”. Magari non pensano che sono lo stesso che ha fatto il film con Ridley Scott, con il barbone e i capelli lunghi, perché non mi riconoscono in ruoli così diversi. È il bello di questo mestiere. In questo momento sì, per il mondo là fuori sono soprattutto Govoni. Poi magari vado al Lucca Comics e mi conoscono per i lavori de “I Licaoni” online e sono un idolo per quelli. Altri mi dicono: tu sei la voce di “Preti”. Bello. Ecco, una cosa che mi piacerebbe è poter unire i puntini e delle mie diverse facce farne una sola.

I puntini li abbiamo uniti alla grande, qui nella rubrica “Backstage” di Psychofilm. Nel caso i miei lettori abbiano perso qualche pezzo ecco i puntini precedenti a questo, del tuo versatile percorso di attore e doppiatore:
Per quanto riguarda “I Licaoni”, dedicheremo al loro (vostro) interessantissimo progetto di videoproduzione indipendente di cortometraggi e lungometraggi e di divulgazione (attraverso un canale youtube dedicato al cinema ricco di recensioni, rubriche e video-tutorial) uno spazio futuro per raccontarsi e narrare quindi indirettamente ancora un pezzo di storia di Guglielmo, che ovunque io mi giri ritrovo inesorabilmente, intrecciato ai racconti di altri racconti. Questa è la prova migliore della sua capacità di essere tante cose e di fare tante cose.
A tal proposito, cosa vedi nel tuo futuro professionale Guglielmo? Hai altri progetti nel cassetto o fuori dal cassetto?
La mia vita professionale negli ultimi due anni è cambiata. In che senso? Ho acquisito tanta sicurezza. In così poco tempo passare da Ridley Scott su provino (quindi non grazie alla fortuna e basta), al set de “Il Nome della Rosa”, che si è protratto per cinque mesi e mezzo, lavorando in inglese con John Turturro e grandissimi attori italiani, inglesi e americani, mi ha dato grande fiducia in me stesso e molta visibilità. Siccome è un momento molto florido di produzioni estere in Italia, sono molto più attento a questo tipo di occasioni e mi butto molto di più. Il cambio di lingua è un bel salto che sento di aver fatto e che mi ha dato molta sicurezza. È un toro che ho preso per le corna.
Ci sono tanti esordienti e persone brave con cui mi piacerebbe ancora lavorare, commedie un po’ diverse. C’è sempre il sogno nel cassetto di fare qualcosa di più grande ancora con i miei bravissimi amici storici di sempre, Alessandro Izzo e Francesca Detti: vorremmo realizzare il film “Twinky Doo’s Magic World”, un horror al quale pensiamo da più di dieci anni e del quale abbiamo realizzato un teaser due anni fa, anche grazie al crowdfunding dei fan del canale de ”I Licaoni”.

Il corto/teaser è stato proiettato all’estero in molte sedi, sta piacendo e vincendo molto e speriamo quindi di poter realizzare presto questo film, su cui abbiamo lavorato tanto. Si tratta di un action horror sulla scia di Carpenter e Romero, che mantiene però un’identità italiana forte; per la prima volta parleremo nel nostro accento: io parlerò livornese,ci sono dei romani… Il dialetto lo useremo non come semplice nota di colore ma come una cosa rafforzativa per dare carattere al film, per far vedere che il toscano non è solo commedia ma ha una ruvidezza, soprattutto il livornese, molto sottovalutata, perché vista solo come vernacolo e ironia. Il livornese è capace di squarci improvvisi di amarezza, che abbiamo messo in questi personaggi.
Ci sono anche progetti con Federico Sfascia, il grande regista indipendente che mi ha dato una mano con il provino di cui sopra e che è già nei pensieri futuri della tua rubrica “Backstage”, e con il geniale Astutillo Smeriglia, che tu hai conosciuto e intervistato per Psychofilm, con il quale progettiamo sempre cartoni animati, cortometraggi, film e colpi di stato.
Questo dal punto di vista indipendente. Poi c’è un ritorno al teatro; mi piacerebbe anche cimentarmi in una forma di monologo stand up comedian, perché trovo che la commedia in Italia sia troppo arenata su certe cose e penso e credo che si possa ridere in maniera anche più intelligente. Siamo tutti addormentati nel flusso di un umorismo precotto ma non voglio credere che ci sia solo questo in Italia.
Poi ci sono dei registi esordienti molto validi che mi piacerebbe accompagnare nei primi passi, e chissà che non succeda. Ci sono tante cose da fare all’orizzonte.
Ti voglio strappare una promessa Guglielmo: tornerai a trovarci per parlare con noi dei tuoi prossimi lavori? Sei pronto a firmare questo patto con me e i miei lettori?
Te lo prometto Laura, croce sul cuore che possa morire… si dice così?